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lundi, 04 octobre 2010

Dos Passos, questo sconosciuto

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Dos Passos, questo sconosciuto

di Marco Iacona


Fonte: Linea Quotidiano [scheda fonte]

Lost generation. La “generazione perduta”, per chi non lo sapesse, è un gruppo di scrittori americani giunti in Europa nella prima parte del Novecento e del quale fanno parte Ernest Hemingway, Ezra Pound e Francis Scott Fitzgerald; tre riferimenti essenziali per i contestatori non solo stelle-e-strisce che verranno dopo, compresa l’arcinota Beat generation di Allen Ginsberg e Jack Kerouac. Entrambe le “generazioni” rappresentano quell’America che ci piace, capace di rappresentare con sincerità fatti e personaggi, di autorappresentarsi (contemporaneamente) con afflitta “gagliardia” o affilata confidenza; ma senza trascurare sogni e aspirazioni seppur camuffati da rigide e fredde disillusioni… un atteggiamento pienamente anticonformista, (chi più di loro?), riconoscibile a fatica (con una prosa particolarmente schietta, curata o meno), che affascinerà intellettuali e narratori italiani fino ai nostri giorni. Due nomi su tutti: Italo Calvino e Cesare Pavese. Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Del gruppo di contestatori d’inizio Novecento, fra i primi peraltro a toccare con mano le degenerazioni della società del nuovo secolo (guerra compresa, ovviamente), è parte integrante anche John Dos Passos del quale vogliamo ricordare in queste pagine i quarant’anni dalla morte (28 settembre 1970). Come definirlo innanzitutto? Come definire quell’intellettuale e scrittore che nei primi anni Sessanta venne in Italia invitato da Giano Accame per partecipare agli “Incontri romani della cultura” grazie anche all’organizzazione del “Centro di vita italiano” di Ernesto De Marzio, e insieme a lui Gabriele Marcel, Michel Déon, Odysseus Elytis (futuro premio Nobel) e James Burnham? Anarchico sicuramente, anarchico nella misura in cui Dos Passos, da un punto di vista politico, fu definitivamente poco etichettabile. Di “destra” nel secondo dopoguerra (anche con posizioni maccartiste), e di “sinistra” filocomunista negli anni precedenti, i Venti e i Trenta (ricordiamo l’impegno civile, il rifiuto dell’evento bellico e la collaborazione alla rivista “New Masses”), anni nei quali si registra – dicono i critici – un apparentamento quasi “perfetto” fra impegno politico, temi e forme sperimentali dell’attività dell’ex studente di Harvard. In anni diciamo così “intermedi” (quasi simbolicamente, fra le due posizioni) il nostro venne anche catturato dalle prospettive del “New Deal” americano. Dos Passos può essere considerato allora un anticipatore ideale e pratico (fece volontariato, fra le altre istituzioni, presso la Croce Rossa), dell’intellettuale mai fermo su posizioni rigide, capace di “riposizionarsi”, e pronto a sfidare le (immancabili) vestali dell’ortodossia politica. Sovente le “peregrinazioni” politiche coincideranno con le fortune o le sfortune del romanziere, abilmente decretate dalla critica internazionale.

Dos Passos, e questo lo rese diverso da buona parte degli scrittori della sua generazione, amava anche “volare basso”, fondendo i grandi ideali (chi mai non ne ebbe?) a pagine di critica ordinaria e di schietto giornalismo; scrisse pagine seducenti sui grandi miti del cinema (miti pop, ma allora quasi nessuno lo sapeva), James Dean e Rodolfo Valentino che vide morire l’uno dopo l’altro, confermandosi in questo settore uno scrittore senza molte “regole”, se non la propria volontà e il proprio gusto. Ma anarchico o difensore degli anarchici il nostro lo fu soprattutto in relazione alle vicende legate ai due anarchici italiani in terra americana, vale a dire Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, sfortunati protagonisti di una storia mai dimenticata. Nel 1926, un anno prima della loro condanna a morte (erano anarchici ma non comunisti), l’uno operaio l’altro pescivendolo, Dos Passos dava alle stampe e per conto di un “Comitato di difesa” per i due italiani detenuti dal 1921 Facing the Chair, un libro nel quale da perfetto libertario biasimava il comportamento dei giudici americani vittime, a suo dire, di pregiudizi politici. In quel periodo, con largo anticipo rispetto alla “caccia alle streghe” del prossimo dopoguerra, in America si viveva infatti un clima repressivo rivolto alla cosiddetta sovversione politica. A farne le spese, fra gli altri, i due anarchici italiani emigrati nel 1908 e accusati di rapina e duplice omicidio benché già scagionati da un testimone. Con Dos Passos altri intellettuali illuminati si schiereranno dalla parte degli italiani “Nick” e “Bart”: da Bertrand Russel a Dorothy Parker, da G. B. Shaw a H. G. Wells. Tutto inutile, naturalmente. Fra le proteste generali i due verranno uccisi tramite sedia elettrica nell’agosto del 1927. Successivamente riabilitati (cinquant’anni dopo!) ma penosamente sacrificati sull’“altare della fermezza” di un’America oppressiva e giustizialista, un’America violenta che a, questo punto, non poteva essere per lo scrittore libertario nato a Chicago nel 1896.

Malgrado la ricca biografia, e malgrado il sentimento di apertura verso un mondo che dal secondo decennio del Novecento offriva più canali di comunicazione (soprattutto: il cinema di Eisenstein, la radio e il teatro sperimentale), Dos Passos è un autore oggi poco conosciuto ad eccezione - forse - di due volumi Manhattan Transfer del 1925 e Il 42° parallelo del 1930. In molti, da tempo, hanno dimenticato gli attestati di stima ricevuti (da J. Paul Sartre nel 1947, per esempio: «considero Dos Passos il più grande degli scrittori del nostro tempo»), ma hanno dimenticato, soprattutto, i suoi libri della fase giovanile e quelli dell’ultimo periodo. I primi sono tout court lo specchio di un’epoca il cui “superamento” condurrà l’autore ad abbracciare quelle posizioni radicali che i più conoscono; le posizioni che negli anni hanno affascinato la critica di sinistra, per intenderci... Come per esempio il “libro di guerra” One Man’s Initiation, interessante in proiezione di una crescita “ideale” di Dos Passos (con timbri espressionisti alla maniera di Ernst Jünger, ma assai diverso per ragioni e architetture), e non del tutto differente dalla copiosa narrativa di guerra che conquisterà i mercati occidentali dagli anni Venti in poi, o come Three Soldiers (1921), che si può considerare un romanzo di “tradizione” decadentista, pessimista, diretto a rivelare i tremendi meccanismi di una società moderna attraverso l’esperienza della guerra.

Ma le capacità di narratore-plurale di Dos Passos (qui sì, anticipatore di quella postmodernità che ama rilegare in capitoli unici le fonti che giungono dagli angoli diversi dello scibile), emergono all’interno del romanzo-denuncia sulla condizione del mondo investito dal progresso tecnologico (Manhattan Transfer). Accanto alla denuncia di un’epoca ove hanno preso il sopravvento le divinità malvagie del macchinismo («le turbine, i motori a scoppio e la dinamite … sono le nostre divinità crudeli e vendicative…»), in questo periodo, in Dos Passos, è possibile reperire una quantità importante di citazioni capaci di posizionare l’autore al crocevia di due percorsi essenziali della letteratura mondiale: fra i più classici come Mark Twain alle avanguardie europee e prim’ancora a Walt Whitman inteso alla maniera radicale. Qui la “sociologia” di Dos Passos ci mostra con linguaggio contemporaneo quel grigio mondo, ancora una volta: a lui contemporaneo, che autori anche molto diversi (si pensi a Chaplin o a Garcia Lorca) ci hanno rivelano nelle pieghe più comiche o sentimentali. Norman Mailer e William Burroughs terranno conto, e tanto, delle sue lezione narrative. 

Dos Passos possiede la “fortuna” di trovarsi a raccontare un periodo storico che rappresenta l’alfa della nostra epoca, credendo inoltre di scorgerne, da “buon radicale” militante, “sperimentatore” e “proletario d’elezione” (ma borghese d’estrazione) anche l’inevitabile omega. È questo che affascina i militanti d’ogni “estrazione”. I suoi lavori degli anni Trenta (la ben nota trilogia U.S.A formata dal 42° parallelo, 1919 e Un mucchio di quattrini), rappresentano il punto di massimo impegno “guerrigliero”, si tratta di affreschi complessi di vita americana (con apoteosi del collettivismo), composti con tecniche sperimentali di “finto” realismo. Ma è in codesti stessi capitoli che si consuma anche politicamente il ribellismo anticapitalistico “a sinistra” di Dos Passos. Resosi finalmente conto dell’incolmabile iato esistente fra idea e prassi comunista, già a metà degli anni Trenta lo scrittore cercherà di indirizzare le sue attitudini libertarie verso sponde liberali di “destra”. Era ora… È questo il periodo (c’era da aspettarselo dopotutto), nel quale tutti parleranno di “crisi”, “declino”, eccetera. È questo il periodo (mancheranno ancora più di trent’anni dalla morte!) nel quale Dos Passos comincia a essere un grande dimenticato (“perduto” di nome e adesso anche di fatto). Eppure l’autore di saggi e testi teatrali e di oltre quaranta romanzi (alcuni dei quali, i più famosi e già citati, tradotti da Pavese), continuerà il proprio lavoro fino alla morte, pubblicando fra gli altri un’altra trilogia di vita americana, District of Columbia, una storia degli avi portoghesi, saggi su Jefferson, diari ed epistolari. A nulla servirà la sua indignazione (a parte la dimensione collettiva e militante, resta il tema del pericolo corso dall’individuo nel mondo contemporaneo). A nulla serviranno (anzi!) gli attestati di stima degli intellettuali anticonformisti di “destra”. A quarant’anni dalla morte cos’altro possiamo aggiungere allora, rispetto alla circostanza che Dos Passos sia ancora un autore quasi tutto da scoprire?

 

mardi, 07 septembre 2010

Lovecraft's Politics

Lovecraft’s Politics

To many of his admirers, the scariest things H. P. Lovecraft wrote were not about Cthulhu, they were about politics. But, as I hope to show, the politics of this master of looming, irrational, metaphysical horror are solidly grounded in reality and reason.

Lovecraft, like many of the literati who turned to Left- or Right-wing politics early in the 20th century, was concerned with the impact of capitalism and technology on society and culture. The economic reductionism of capitalism was simply mirrored by Marxism, both of them emanations of the same modern materialist Zeitgeist.

Beginning in the late 19th century, a pervasive discontent with materialism led to a search for an alternative form of society, including alternative foundations for socialism, which occupied Europe’s leading socialist minds like Georges Sorel. What emerged early in the 20th Century was variously called “neosocialism” and “planism,” the most prominent exponents of which were Marcel Deat in France and Henri De Man in Belgium. Neosocialism, in turn, influenced the rise of fascism.[1]

Neosocialists primarily feared that the material abundance and leisure promised by socialism would lead to decadence and banality unless joined to a hierarchical vision of culture and education.

This was, for instance, the focus of Oscar Wilde’s The Soul of Man under Socialism, which envisioned an individualistic socialism that liberated humanity from economic necessity to pursue self-actualization and higher cultural and spiritual activities, even if these consisted of nothing more than quietly contemplating the cosmos.[2]

Such concerns cannot be dismissed as effete dandyism. They were shared, for instance, by the famous Depression era New Zealand Labour politician John A. Lee, a one-armed hero of the First World War who more than any other individual tried to pressure the 1935 Labour Government into keeping its election pledges on banking and state credit.[3] In Lee’s words:

Joe Savage . . . sees socialism as piles of goods fairly equitably divided and work equitably divided. I am sure he never sees it as the opportunity to play football, get brown on a beach, dance a fox trot, lie on one’s back beneath the trees, enjoy the intoxication of verse, the perfume of flowers, the joys of a novel, the thrill of music.[4]

Lee envisioned a form of socialism that was not directed primarily towards “piles of goods and work equitably distributed” as an end in itself, but as the means of achieving higher levels of being.

These neosocialist concerns were also shared by the fascists and National Socialists. Combating the enervating and leveling effects of wealth and leisure, and edifying the characters and tastes of the masses were the goals of Dopolavoro in Fascist Italy and Strength Through Joy in National Socialist Germany, as disquieting as this thought may be to socialists of the Left.

While it seems unlikely that Lovecraft was aware of this ideological tumult in European socialism, he arrived at similar conclusions in some key areas.

Lovecraft, like other writers who rejected Marxism,[5] deemed both democracy and communism “fallacious for Western Civilization.”[6] Instead, Lovecraft favored:

. . . a kind of fascism which may, whilst helping the dangerous masses at the expense of the needlessly rich, nevertheless preserves the essentials of traditional civilization and leaves political power in the hands of a small and cultivated (though not over-rich) governing class largely hereditary but subject to gradual increase as other individuals rise to its cultural level.[7]

Lovecraft feared that socialism, like capitalism, would pave the way for universal proletarianization and the consequent leveling of culture. Thus he proposed instead full employment and the shortening of the work day through mechanization under the cultural guidance of an aristocratic socialist-fascist regime.

This again was probably a perceptive insight arrived at independently by Lovecraft, but it was very much a part of the new economic thinking of the time. In England, the Fabian-socialist review, The New Age, edited by guild-socialist A. R. Orage, became a forum for discussing Maj. C. H. Douglas’ “Social Credit” theory, which was proposed as an alternative to the debt finance system, with the issue of a “social credit” to all citizens through a “National Dividend” allowing the full value of production to be consumed. They also aimed at fostering mechanization to decrease work hours and increase leisure, which they thought would be conducive to the blossoming of culture. (These ideas have renewed relevance as the eight-hour workday, the long-fought gain of the early labor movement, is becoming a rarity.)

Both Ezra Pound and New Zealand poet Rex Fairburn were Social Crediters because they judged it the best economic system for the arts and culture.

Lovecraft was concerned at the elimination of the causes of social revolution, and he advocated the limitation of the vast accumulation of wealth, while recognizing the need to maintain wage disparities based on merit. His concern was the elimination of the “commercial oligarchs,”[8] which in practical terms was the purpose of Social Credit and of the neosocialists.

While regarding the primary goal of a nation to be the development of high aesthetic and intellectual standards, Lovecraft recognized that such a society must be based on the traditional social organization of “order, courage and endurance,” his definition of civilization being that of a social organism devoted to “a high qualitative goal” maintained by the aforesaid ethos.

Lovecraft thought the hierarchical social order best fitted to the practicalities of the new machine age was a “fascistic one.” The “demand-supply motive” would replace the profit motive in a state-directed economy that would reduce working hours while increasing leisure hours. The citizen could then be elevated culturally and intellectually as far as innate abilities allowed, “so that this leisure will be that of a civilized person rather than that of a cinema-haunting, dance-hall frequenting, pool-room loafing clod.”

Lovecraft saw no wisdom in universal suffrage. He advocated a type of neo-aristocracy or meritocracy, with voting rights and the holding of public office “highly restricted.” A technological, specialized civilization had rendered universal suffrage “a mockery and a jest.” He wrote that, “People do not generally have the acumen to run a technological civilization effectively.” This anti-democratic principle Lovecraft held to be true regardless of one’s social or economic position, whether as menial laborer or as an academic.

The uninformed vote upon which democracy rests, Lovecraft wrote, “is a subject for uproarious cosmic laughter.” The universal franchise meant that the unqualified, generally representing some “hidden interest,” would assume office on the basis of having “the glibbest tongue” and “the flashiest catch-words.”

His reference to “hidden interests” can only refer to his understanding of the oligarchic nature of democracy. This would have to be replaced by “a rational fascist government,” where office would require a prerequisite test of knowledge on economics, history, sociology and business administration, although everyone—other than unassimilable aliens—would have the opportunity to qualify.[9]

A year after Mussolini took power in 1922 Lovecraft wrote that, “Democracy is a false idol—a mere catchword and illusion of inferior classes, visionaries and dying civilizations.” He saw in Fascist Italy “the sort of authoritative social and political control which alone produce things which make life worth living.”

This was also why Ezra Pound admired Fascist Italy, writing “Mussolini has told his people that poetry is a necessity to the state.”[10] And: “I don’t believe any estimate of Mussolini will be valid unless it starts from his passion for construction. Treat him as artifex and all the details fall into place. Take him as anything save the artist and you will get muddled with contradictions.”[11]

Such figures as Pound, Marinetti, and Lovecraft viewed fascism as a movement that could successfully subordinate modern technological civilization to high art and culture, freeing the masses from a coarse and brutalizing commoditized popular culture.

Lovecraft thought the cosmos indifferent to mankind and concluded that the only meaning of human existence is to reach ever higher levels of mental and aesthetic development. What Sir Oswald Mosley called actualization to Higher Forms in his post-war thinking,[12] and what Nietzsche called the goal of Higher Man and the Overman,[13] could not be achieved through “the low cultural standards of an underdeveloped majority. Such a civilization of mere working, eating drinking, breeding and vacantly loafing or childishly playing isn’t worth maintaining.” It is a form of lingering death and is particularly painful to the cultural elite.

Lovecraft was heavily influenced by Nietzsche and Oswald Spengler.[14] He recognized the organic, cyclic nature of cultural birth, youthfulness, maturity, senility and death as the basis of the history of the rise and fall of civilizations. Thus the crisis brought to Western Civilization by the machine age was not unique. Lovecraft cites Spengler’s The Decline of The West as support for his view that civilization had reached the cycle of “senility.”

Lovecraft saw cultural decline as a slow process that spans 500 to 1000 years. He sought a system that could overcome the cyclical laws of decay, which was also the motivation of Fascism.[15] Lovecraft believed it was possible to re-establish a new “equilibrium” over the course of 50 to 100 years, stating: “There is no need of worrying about civilization so long as the language and the general art tradition survives.” The cultural tradition must be maintained above and beyond economic changes.[16]

In 1915 Lovecraft established his own political journal called The Conservative, which ran for 13 issues until 1923. The focus of the journal was defending high cultural standards, particularly in the field of Letters, but it also opposed pacifism, anarchism,  and socialism and supported “moderate, healthy militarism” and “Pan-Saxonism,” meaning “the domination of English and kindred races over the lesser divisions of mankind.”[17]

Like the neosocialists in Europe, Lovecraft opposed the materialistic conception of history as being equally bourgeois and Marxist. He saw Communism as “destroying the zest for life” for the sake of a theory.[18] Rejecting economic determinism as the primary motive of history, he saw “natural aristocrats” arising from all sectors of a population regardless of economic status. The aim of a society was to substitute “personal excellence for that of economic position”[19] which is, despite Lovecraft’s declared opposition to “socialism,” nonetheless essentially the same as the “ethical socialism” propounded by Henri De Man, Marcel Deat et al. Lovecraft saw Fascism as the attempt to achieve this form of aristocracy in the context of modern industrial and technological society.

Lovecraft saw the pursuit of “equality” as a destructive rationale for “an atavistic revolt” against civilization by those who are uneasy with culture. The same motive was the root of Bolshevism, the French Revolution, the “back to nature” cult of Rousseau, and the 18th Century Rationalists. Lovecraft saw that the same revolt was being taken up by “backward races” under the leadership of the Bolsheviks.[20]

These views are clearly Nietzschean, but they even more specifically resemble those of The Revolt Against Civilization: The Menace of the Underman[21] by the then popular author Lothrop Stoddard, whose work would certainly have attracted Lovecraft, with his concern for the maintenance and rebirth of civilization and rejection of leveling creeds.

Although Lovecraft rejected egalitarianism, he did not advocate a tyranny that represses the masses for the benefit of the few. Instead, he viewed elite rule as a necessary means for achieving the higher goals of cultural actualization. Lovecraft wished to see the elevation of the greatest number possible.[22] Lovecraft also rejected class divisions as “vicious,” whether emanating from the proletariat or the aristocracy. “Classes are something to be gotten rid of or minimized—not to be officially recognized.” Lovecraft proposed to replace class conflict with an integral state that reflected the “general culture-stream.” Between the individual and the state would exist a two-way loyalty.

Lovecraft regarded pacifism as an “evasion and idealistic hot air.” He declared internationalism “a delusion and a myth.”[23] He saw the League of Nations as “comic opera.”[24] Wars are a constant in history and must be prepared for via universal conscription.[25] Historically war had strengthened the “national fiber,” but mechanized warfare had negated the process; in fact the mass technological destruction of the First World War was widely recognized as dysgenic. Nonetheless the European, and specifically the Anglo-Saxon, must maintain his supremacy through firepower, for “a foeman’s bullet is sweeter than a master’s whip.”[26] However, as one might expect from an anti-materialist, Lovecraft repudiated the typical modern cause of warfare, that of fighting for mercantile supremacy, “defense of one’s own land and race [being] the proper object of armament.”[27]

Lovecraft saw Jewish representation in the arts as responsible for what Francis Parker Yockey would call “culture distortion.” New York City had been “completely Semiticized” and lost to the “national fabric.” The Semitic influence in literature, drama, finance, and advertising created an artificial culture and ideology “radically hostile to the virile American attitude.” Like Yockey, Lovecraft saw the Jewish Question as a matter of an “antagonistic culture-tradition” rather than as a difference of race. Thus Jews could theoretically become assimilated into an American cultural tradition. The Negro problem, however, was one of biology and must be recognized by maintaining “an absolute color-line.”[28]

This brief sketch is sufficient, I think, to show that H. P. Lovecraft belongs among an illustrious list of 20th century creative geniuses—including W. B. Yeats, Ezra Pound, D. H. Lawrence, Knut Hamsun, Henry Williamson, Wyndam Lewis, and Yukio Mishima—whose rejection of materialism, egalitarianism, and cultural decadence caused them to search for a vital, hierarchical alternative to both capitalism and communism, a search that led them to entertain and embrace proto-fascist, fascist, or National Socialist ideas.

Notes

[1] Zeev Sternhell, Neither Left Nor Right: Fascist Ideology in France (Princeton: Princeton University Press, 1986).

[2] Oscar Wilde, The Soul of Man Under Socialism, 1891.

[3] After the tour of C. H. Douglas to New Zealand, the banking system and usury were very well understood by the masses of people, and banking reform was a major platform that achieved Labour’s victory. As it transpired, they attempted to renege, but Lee succeeded in getting the Government to issue 1% Reserve Bank state credit to build the iconic and enduring State Housing project that in one fell swoop reduced unemployment by 75%. Lee soon became a bitter opponent of the opportunism of the Labour politicians. However the state credit, albeit forgotten by most, stands as a permanent example of how a Government can bypass private banking and issue its own credit.

[4] Erik Olssen, John A. Lee (Dunedin, New Zealand: University of Otago Press, 1977), p. 66.

[5] K. R. Bolton, Thinkers of the Right (Luton: Luton Publications, 2003).

[6] H. P. Lovecraft: Selected Letters, ed. August Derleth and James Turner (Wisconsin: Arkham House, 1976), Vol. IV, p. 93.

[7] Selected Letters, vol. IV, p. 93.

[8] Selected Letters, vol. V, p. 162.

[9] Selected Letters, vol. IV, pp. 105–108.

[10] Quoted by E. Fuller Torrey, The Roots of Treason (London: Sidgwick and Jackson, 1984), p. 138.

[11] Ezra Pound, Jefferson and/or Mussolini, 1935 (New York: Liveright, 1970), pp. 33–34.

[12] Oswald Mosley, Europe: Faith and Plan (London: Euphorion, 1958), “The Doctrine of Higher forms,” pp. 143–47.

[13] Friedrich Nietzsche, Thus Spoke Zarathustra (Middlesex: Penguin Books, 1975), “The Higher Man,” pp. 296–305. A glimpse of Nietzschean philosophy is alluded to in Lovecraft’s “Through the Gates of the Silver Key” where Carter discerns words from beyond the normal ken: “‘The Man of Truth is beyond good and evil,’ intoned a voice. ‘The Man of Truth has ridden to All-Is-One…’” (Lovecraft, The Dream Quest of Unknown Kadath [New York: Ballantine Books, 1982], “Through the Gates of the Silver Key,” p. 189).

[14] Oswald Spengler, The Decline of The West, 1928 (London: George Allen and Unwin, 1971).

[15] “Fascism . . . was a movement to secure national renaissance by people who felt themselves threatened with decline into decadence and death and were determined to live, and to live greatly.” Sir Oswald Mosley, My Life (London: Nelson, 1968), p. 287.

[16] Selected Letters, vol. IV, p. 323.

[17] H. P. Lovecraft, “Editorial,” The Conservative, vol. I, July 1915.

[18] Selected Letters, vol. IV, p. 133.

[19] Selected Letters, vol. V, pp. 330–33.

[20] Selected Letters, vol. V, p. 245.

[21] Lothrop Stoddard, The Revolt of Against Civilization: The Menace of the Underman (London: Chapman and Hall, 1922).

[22] Selected Letters, vol. IV, pp. 104–105.

[23] Selected Letters, vol. V, pp. 311–12.

[24] Selected Letters, vol. IV, pp. 15–16.

[25] Selected Letters, vol. IV, p. 22.

[26] Selected Letters, vol. IV, pp. 311–12.

[27] Selected Letters, vol. IV, p. 31.

[28] Selected Letters, vol. IV, pp. 193–95.

mardi, 31 août 2010

Letture e riflessioni sull'opera letteraria di Edgar Allan Poe

Letture e riflessioni sull’opera letteraria di Edgar Allan Poe

Francesco Lamendola

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Edgar Allan Poe nasce a Boston nel 1809 e muore a Baltimora nel 1849. La sua breve e infelice esistenza è stata caratterizzata da tre successivi, laceranti distacchi da altrettante figure femminili per lui altamente significative: la madre, morta quand’egli aveva appena tre anni (il padre li aveva entrambi abbandonati), per cui fu accolto in casa dai coniugi Allan; la signora Francesc Allan, quand’egli ne aveva venti, e che non poté neanche giungere in tempo per salutare l’ultima volta prima delle esequie; e la moglie-bambina, quella Virginia Clemm (sposata appena tredicenne), che era sua cugina prima – in quanto figlia della zia paterna Maria Clemm – e che morirà, dopo una lunga agonia, consumata dalla tubercolosi. Come scrittore si è cimentato in molti ambiti della letteratura. In quello della teoria e della critica letteraria ha scritto Fondamento del verso, 1843; La filosofia della composizione, 1846; Marginalia ed Eureka, 1849; Il principio poetico, pubblicato postumo, nel 1850. Tutte queste opere sono state studiate e tradotte in Europa, specialmente da Charles Baudelaire; in esse Poe prende posizione contro la concezione romantica della spontaneità dell’arte (sintetizzata dal pittore tedesco Caspar David Friedrich nella formula: “L’unica vera sporgente dell’arte è il nostro cuore”) e a favore di una concezione secondo la quale l’opera letteraria può essere creata come un sapiente meccanismo, montata e smontata pezzo a pezzo.

Pertanto se egli si situa, per motivi cronologici, nel contesto del romanticismo, la sua poetica nondimeno si colloca piuttosto alle sorgenti del simbolismo e precorre la grande stagione decandetistica, su su fino a Borges e a quegli scrittori che tendono a vedere nella scrittura un ambito totalmente autonomo, che vive di leggi proprie, separate dalla vita quotidiana. Nella poesia si è cimentato con la raccolta giovanile Tamerlano e altre poesie, del 1827; poi con Al Aaraaf, del 1829; con Poesie del 1831; e infine con Il corvo e altre poesie, del 1845: quest’ultima è stata la sua definitiva rivelazione e gli ha procurato (a soli quattro anni dalla morte) una certa, tardiva celebrità.

Ne Il Corvo (The Raven) il poeta, immerso nello studio ove cerca di soffocoare il dolore per la perdita della donna amata, ode un fruscìo a tarda notte: apre la porta, ma non c’è nessuno; poi sente ripetersi il rumore alla finestra: la apre, e un corvo entra e si posa su un busto di Minerva, fissandolo con occhi scontillanti e quasi demoniaci. Il poeta lo interroga per dare sollievo alla propria pena, e gli chiede se riuscirà mai ad attenuare il dolore che lo trafigge, ma sempre l’uccello risponde:

“Mai più” (“Nevermore”). […]
“‘O profeta, figlio del maligno – dissi – uccello
o demone, che ti mandi il Tentatore o ti porti la tempesta,
solitario eppure indomito sopra questa desolata
incantata terra, in questa casa orrida,
ti supplico,
di’: c’è un balsamo in Galaad? Dillo, avanti, te ne supplico!’
Ed il Corvo qui: ‘Mai più!’
‘O profeta – dissi – figlio del maligno, uccello
o demone,
per il Cielo sopra noi, per il Dio di tutti e due,
di’ a quest’anima angosciata se nel Paradiso mai
rivedrà quella fanciulla che Lenore chiamano
gli angeli,
la fanciulla pura e splendida che Lenore
chiamano gli angeli!’
Ed il Corvo qui: ‘Mai più!’.
‘E sia questa tua sentenza un addio fra noi’ alzandomi
gridai ‘torna alle plutonie rive oscure e alle tempeste!
Non lasciar neanche una piuma a ricordo de tuo inganno!
Voglio stare in solitudine, lascia il busto
sulla porta!’
Disse il Corvo qui: ‘Mai più!’
Ma quel corvo non volò, ed ancora, ancora posa
sopra il busto di Minerva, sulla porta
della stanza,
ed ha gli occhi come quelli di un diavolo
che sogna,
e la luce ne proietta l’ombra sopra il pavimento.
la mia anima dall’ombra mossa sopra il
pavimento
Non si leverà – mai più! [Trad. di A. Quattrone].

Anche per la “scoperta” della poesia di Poe è stata determinante la mediazione della cultura europea, e di quella francese in modo particolare: tradotto da Mallarmé, egli è giunto nel “salotto buono” della cultura americana solo molto più tardi, dopo la prematura scomparsa. Per quasi tutta la sua vita egli era stato uno spostato, un emarginato, un giullare, ignorato dai critici letterari imbevuti di puritanesimo e di “sano” pragmatismo; eppure aveva saputo interpretare più di chiunque altro gli incubi e le nevrosi dei suoi compatrioti, proprio in quanto essi li avevano negati o rimossi. La “scoperta” di Poe da parte degli Europei, d’altronde, non significa affatto – come pure è stato detto – che Poe sia il più “europeo” degli scrittori americani: anzi, è americanissimo (e in Europa, in Scozia per la precisione, non visse che pochi anni, da bambino, al seguito degli Allan, però in collegio); ma, per una serie di ragioni storico-culturali, la letteratura europea era più matura per riceverne e comprenderne il messaggio. Poe, inoltre, è stato un giornalista molto dotato; ha collaborato con giornali e riviste quali il Courier, il Southern Literary Messanger di Richmond, il Gift ed il Graham’s Magazine: portando quest’ultimo, tanto per fare un esempio delle sue eccezionali capacità, da una tiratura di 5.000 copie ad una di
40.000, dunque otto volte superiore.

Si è poi cimentato nel romanzo e nel racconto, ed è questo l’ambito dove ha lasciato l’orma più durevole, tanto che nessuno scrittore del terrore, dopo di lui – né americano, né europeo – ha potuto evitare di fare i conti con lui, di prendere posizione rispetto alla sua figura gigantesca. Come romanziere ha scritto Le avventure di Arthur Gordon Pym, pubblicato nel 1838: resoconto di una navigazione antartica permeato d’inquietudine, di orrore e di mistero, che risente del clima di entuasiamo per le prime scoperte antartiche da parte di Russi, Britannici, Francesi e Statunitensi. Il romanzo rimane volutamente interrotto e ha stuzzicato a tal punto la fantasia delle generazioni successive, che Jules Verne volle scriverne il seguito con La sfinge dei ghiacci. Verso la fine dell’opera, infatti, il protagonista e un suo compagno d’avventura, che una inspiegabile corrente marina calda ha portato oltre la barriera dei ghiacci gallegganti, verso le acque libere del Polo Sud, intravvedono, in mezzo al volo d’innumerevoli uccelli bianchi, una gigantesca figura umana che si leva all’orizzonte, d’un candore innaturale, e si staglia torreggiante su di loro.

“5 marzo. – Il vento era completamente cessato, ma noi continuavamo a correre lo stesso verso il sud, trascinati da una corrente irresistibile. Sarebbe stato naturale che provassimo dell’apprensione per la piega che prendevano le cose, invece niente. […]

“6 marzo.- Il vapore si era alzato di parecchi gradi e andava a poco a poco perdendo la sua tinta grigiastra. L’acqua era calda più che mai, e ancora più lattiginosa di prima. Ci fu una violenta agitazione del mare proprio vicinissimo a noi, accompagnata, come al solito, da uno strano balenio del vapore e da una momentana frattura lungo la base di esso. […]

“9 marzo. – La strana sostanza come di cenere continuava a pioverci attorno. La barriera di vapore era salita sull’orizzonte sud a un’altezza prodigiosa, e cominciava ad assumere una forma distinta. Io non sapevo paragonarla altro che a una immane cateratta la quale precipitasse silenziosamente in mare dall’alto di qualche favolosa montagna perduta nel cielo. La gigantesca cortina occupava l’orizzonte in tutta la sua estensione. Da essa non veniva alcun rumore.

“21 marzo. – Una funebre oscurità aleggiava su di noi ma dai lattiginosi recessi dell’oceano scaturiva un fulgore che si riverberava sui fianchi del battello. Eravamo quasi soffocati dal tempestare della cenere bianca che si accumulava su di noi e riempiva l’imbarcazione, mentre nell’acqua si scioglieva. La sommità della cateratta si perdeva nella oscurità della distanza. Nel frattempo risultava evidente che correvamo diritto su di essa ad una impressionante velocità. A tratti, su quella cortina sterminata, si aprivano larghe fenditure, che però subito si richiudevano, attraverso le quali, dal caos di indistinte forme vaganti che si agitavano al d ilà, scaturivano possenti ma silenziose correnti d’aria che sconvolgevano, nel loro turbine, l’oceano infiammato.

“22 marzo. – L’oscurità si era fatta più intensa e solo il luminoso riflettersi delle acque della bianca cortina tesa dinanzi a noi la rischiarava ormai. Una moltitudine di uccelli giganteschi, di un livido color bianco, si alzava a volo incessantemente dietro a noi per battere, appena ci vedevano, in ritirata gridando il sempiterno Tekeli-li. Nu-Nu [un indigeno della misteriosa isola di Tsalal che i due avevano fatto prigioniero] ebbe, a quelle grida un movimento sul fondo del battello, e, come noi lo toccammo, scoprimmo che aveva reso l’ultimo respiro. Fu allora che la nostra imbarcazione si precipitò nella morsa della cateratta dove si era spalancato un abisso per riceverci. Ma ecco sorgere sul nostro cammino una figura umana dal volto velato, di proporzioni assai più grandi che ogni altro abitatore della terra. E il colore della sua pelle era il bianco perfetto della neve.” [trad. di Elio Vittorini].

poe1.jpgDicevamo della lucidità, della “scientificità”della poetica del Nostro: ebbene, coloro che si son presi la briga di riportare sulla carta geografica la rotta della nave di Gordon Pym attraverso gli oceani, hanno avuto una sorpresa: congiungendone i punti, appariva nettamente la sagoma di un grande uccello con le ali spiegate – come i misteriosi uccelli bianchi che gridano il loro incessante Tekeli-li. Un caso, una semplice coincidenza? Ma Poe amava moltissimo i giochi di decrittazione, gli enigmi logici e linguistici: sempre nel Gordon Pym, il protagonista scopre, incisi sulla roccia dell’isola sconosciuta, dei caratteri apparentemente senza significato, ma che si riveleranno poi parole di antico egiziano, di etiopico, di arabo le quali accennano al segreto inaudito che si annida nella regione del Polo antartico. E tale passione per le sciarade, per i rompicapi, per l’applicazione pratica di una logica rigorosa di tipo matematico si rivela pienamente nel filone dei racconti polizieschi, particolarmente ne I delitti della rue Morgue, ne Lo scarabeo d’oro, ne La lettera rubata. Ricordi, forse, degli studi fatti a West Point, all’epoca del breve e fallimentate tentativo di farsi una carriera nell’esercito.

Ma i racconti ai quali è principalmente legata la fama di Poe sono, senza dubbio, quelli del mistero e del terrore: particolarmente alla raccolta Racconti del grottesco e dell’arabesco, del 1840. Solo una parte di essi si serve dell’elemento soprannaturale; tutti, però, nascono da un profondo sentimento di inquietudine, analizzato con freddo e lucido distacco, anche nelle situazioni più drammatiche e disperate. L’inquietudine, intendiamoci, può essere essenzialmente di due generi: quella metafisica e quella storica. L’inquietudine metafisica è strutturalmente legata alla condizione ontologica dell’uomo: creatura finita che anela all’infinito; come dice Sant’Agostino nelle Confessiones: “Inquietum est cor meum, donec requiescat in Te, Domine” (“inquieto è il mio cuore, finché non trova pace e riposo in Te, mio Dio”). E l’arte, per usare la terminologia del filosofo spiritualista Luigi Stefanini, è la “Parola Assoluta” che la persona finita pronunzia nel mondo dei sensibili, una parola carica di nostalgia verso la Persona Infinita dalla quale trae origine. Al contrario, l’inquietudine storica è frutto di condizioni particolari dello spazio-tempo di una determinata società; esprime l’angoscia dei momenti drammatici di trapasso dai “vecchi” valori ai “nuovi”: gli uni orma tramontati, gli altri non ancora ben delineati all’orizzonte. Una tipica età di trapasso, ad esempio, è stata quella della tarda antichità, del tardo paganesimo greco-romano: e, non a caso, essa è stata caratterizzata da una straordinaria angoscia esistenziale, da un senso di raccapriccio e di paura solo in séguito rischiarato da altre certezze. Ebbene l’inquietudine che caratterizza il mondo poetico di Poe appartiene a questo secondo tipo ed esprime, a nostro avviso, il dramma del passaggio dalla società pre-moderna alla piena modernità, caratterizzata dall’eclisse del sacro, dalla mercificazione totale dei rapporti umani, dall’efficientismo e dal produttivismo esasperati, dalla perdita del senso del limite e del mistero, dalla hybris (o dismisura) di un Logos strumentale e calcolante proteso ad affermare il suo dominio brutale sul mondo naturale, ridotto a pura riserva di beni da sfruttare e a discarica ove smaltire i prodotti di rifiuto del processo industriale. Nella letteratura anglo-americana dell’Ottocento, poi, vi è un significativo, assordante silenzio circa uno dei risvolti più terribili dell’avvento della modernità: lo sterminio del bisonte, lo sterminio dell’Indiano, vero peccatum originalis di una società nata all’insegna della democrazia e della tolleranza e che ha saputo distruggere, in pochi decenni, non solo una natura e una civiltà, ma un modo di essere, un modo di esprimere la sacralità delle cose (le Colline Nere del Dakota consacrate al Grande Spirito e prese d’assalto dall’uomo bianco in nome della sua insaziabile auri sacra fames di virgiliana memoria, la “maledetta brama dell’oro”). I grandi scrittori – Washington Irving, Hawthorne, Melville, Twain, Emerson, Thoreau, Whitman, lo stesso Poe – tacciono completamente al riguardo; pure in quel silenzio, in quella radicale rimozione, vi è un grido disperato, che è poi anche il grido del crimine commesso dall’uomo bianco contro se stesso, contro la parte migliore di sé, strangolata in nome del marcusiano homo oeconomicus.

Ma negli incubi e nei terrori dell’opera di Poe si direbbe prenda voce quel crimine rimosso, quel terribile silenzio della cultura “ufficiale”. Ed ecco i racconti del terrore di Poe, popolati da una umanità dolente e allucinata, i cui protagonisti sono altrettanti alter ego dell’autore, in cui ricorrono le sue funebri ossessioni: l’attrazione morbosa per la decadenza e la morte; la sepoltura da vivi e il ritorno dei non-morti; i torturanti sensi di colpa; la vendetta a lungo covata e ferocemente messa in opera; in una parola, il cupio dissolvi, il desiderio di auto-distruzione venato di sado-masochismo e di necrofilia, in una spirale sempre più asfittica e vorticosa, sempre più disperatamente chiusa in sé stessa.

Nel Manoscritto trovato in una bottiglia il protagonista, durante un viaggio per mare, viene trascinato dalla tempesta verso le estreme latitudini meridionali (come nel Gordon Pym), finchè il suo piccolo veliero è letteralmente travolto da una nave dalle dimensioni immense che si abbatte su di esso dall’alto di una formidabile ondata. Scaraventato a bordo della nave misteriosa, egli non tarda ad accorgersi che il suo equipaggio, che si comporta come se non lo vedesse affatto, è costituito in realtà da fantasmi, ovvero da esseri umani di un altro mondo, di un’altra dimensione. Vi è un’eco dantesca in questo racconto, un clima da epos della scoperta e della punizione che ricorda da vicino il “folle vollo” di Ulisse nel famoso XXVI canto dell’Inferno di Dante Alighieri; e anche una reminiscenza della celebre leggenda dell’Olandese Volante, il capitano di veliero del XVI secolo che, al passaggio del Capo di Buona Speranza, fu punito dalla giustizia divina per aver osato lanciare un’empia sfida alle leggi di Dio e della natura.

“Intendere l’orrore di ciò che io provo è, credo, assolutamente impossibile, e tuttavia una strana curiosità di penetrare i misteri di queste regioni spaventose ha il sopravvento persino sulla mia disperazione stessa, e certo mi riconcilierà con la visione della più orrida delle morti. È evidente che noi siamo spinti innanzi verso qualche affascinante conoscenza, verso qualche segreto mai rivelato ad alcuno, il raggiungimento del quale significa distruzione. Forse questa corrente ci conduce direttamente al Polo Sud, e devo ammettere che un’ipotesi apparentemente tanto avventata ha ogni probabilità in suo favore. Gli uomini dell’equipaggio si muovono sul ponte con passi inquieti, tremebondi, ma vi è nei loro volti una espressione più di attesa e di speranza che di apatia o di disperazione.

“Frattanto abbiamo senpre il vento in poppa e, poiché trasportiamo una mole incredibile di vele, il vascello è a volte sollevato di peso fuor del mare… Oh, orrore che non ha eguali! Il ghiaccio si apre subitamente a dritta e a manca, e noi stiamo roteando vorticosamente in immensi cerchi concentrici, torno torno agli orli di un gigantesco anfiteatro, il culmine delle cui muraglie si perde nelle tenebre e nella distanza. Ma poco tempo mi rimarrà per riflettere sul mio destino: i cerchi rimpiccioliscono rapidamente, stiamo inabissandoci a velocità pazzesca entro le fauci del vortice, e, fra un tumultuare, un muggire, un rombare di oceano e di tempesta, la nave vibra, scricchiola. Oh Dio!… Affonda!”

La situazione finale del Manoscritto viene poi pienamente sviluppata nel celebre Una discesa nel Maelstrom, ove l’orrore per le mostruose forze naturali scatenate quasi diabolicamente non è stemperato, ma anzi accresciuto dalla maniacale, incongrua lucidità con cui il protagonista – un pescatore travolto nel pauroso vortice norvegese, al laro delle Isole Lofoten – osserva ogni dettaglio della situazione e riesce perfino a coglire la dimensione estetica di quella muraglia d’acqua che si avvolge entro sé stessa – a coglierne lo spirito dell’orrido che, come pensava Schopenhauer, non è che una particolare situazione del sublime.

“Non potrò mai dimenticare il senso di terrore arcano, di orrore, di meraviglia che mi afferò non appena volsi lo sguardo a contemplare lo spettacolo che mi circondava. La barca sembrava sospesa a mezzavia, come per opera d’incantesimo, sulla superficie interna di un imbuto immenso di circonferenza, prodigioso di profondità, e le cui pareti perfettamente lisce potevano essere scambiate per ebano, non fosse stato per la rapidità vertiginosa con cui roteavano torno torno, e per la scintillante, spettrale radiosità che emanava da esse, quasi che i raggi della luna al suo colmo, da quello squarcio circolare frammezzo alle nubi che già ho descritto, sgorgassero in un fiotto di gloria dorata lungo le nere muraglie, giù, giù, sin entro i più riposti recessi dell’abisso”.

E ancora, si noti la selvaggia maestà di questo notturno lunare, degno di un Alcmane nella sua solenne, pensosa grandiosità, ma che altro non è, a ben guardare, se non un’ennesima trasposizione dell’incubo ricorrenti della sepoltura da vivo – una sepoltura liquida, nella tomba dell’oceano, non meno terrorizzante di quella in una solida bara, ma in qualche modo riscattata dalla sontuosa magnificenza spettrale che emana dalla scena nel suo insieme:

“I raggi della luna sembravano frugare in cerca del fondo stesso dell’insondabile abisso, ma io ancora non riuscivio a vedere distintamente, a causa di una fitta nebbia in cui ogni cosa era avvolta, e sulla quale si tendeva un meraviglioso arcobaleno simile all’angusto, vacillante ponte che i mussulmani dicono sia il solo passaggio tra il Tempo e l’Eternità. Questa foschia, o spuma, era senza dubbio prodotta dal cozzo delle grandi pareti dell’imbuto, ogni qualvolta esse si incontravano insieme nel fondo; ma l’ululato che saliva sino ai cieli fuor di quella nebbia io non mi arrischierò a descriverlo”.

Il protagonista de Una discesa, tuttavia, riesce miracolosamente a sopravvivere, legandosi a un barilotto e venendo poi tratto in salvo da alcuni pescatori: ma l’esperienza dell’orrido, del passaggio simbolico dal Tempo all’Eternità, lo ha segnato per sempre e precocemente invecchiato. Non è stata una morte e una rinascita di tipo iniziatico; egli è risalito dall’abisso svuotato di ogni energia, distrutto nel fisico e nello spirito. Per dirla col Nietzsche di Al di là del bene e del male: “Non puoi guardare a lungo nell’abisso, senza che l’abisso non finisca per guardare te dentro agli occhi”: e non è un’esperienza catartica, ma solo distruttiva.

“Coloro che mi issarono a bordo erano miei vecchi amici e compagni di tutti i giorni, ma non mi riconobbero più di quanto avrebbero riconosciuto un viaggiatore di ritorno dal mondo degli spettri: i miei capelli, che solo il giorno innanzi erano stati di un nero corvino, erano divenuti bianchi come tu li vedi adesso. Raccontai loro la mia avventura… ma non mi credettero. Io la ripeto a te… ma non spero che tu mi presti maggior fede di quanto me ne abbiano prestata gli allegri pescatori di Lofoten.”

Con il celeberrimo Il pozzo e il pendolo si passa da una dimensione di orrore naturale, cosmico, a un altro genere di orrore, diabolicamente umano – se ci è lecito l’ossimoro; la diabolica malignità che gli aguzzini dell’Inquisizione spagnola sanno escogitare a danno di un condannato, rinchiuso nelle loro carceri di Toledo. Dapprima l’uomo è gettato in una cella totalmente immersa nell’oscurità, ove per un puro caso evita di precipitare in un pozzo dalle profondità smisurate, insondabili, ove i suoi carnefici avrebbero voluto farlo precipitare; poi, dopo aver mangiato del cibo drogato, si risveglia legato ad un lettuccio, mentre un mostruoso pendolo dalla lama tagliente come un coltello affilatissimo, oscillando lentamente lungo tutta l’ampiezza della cella, scende millimentro dopo millimetro verso il suo petto indifeso. Egli vede avvicnarsi il terribile marchingegno ed è in grado di riflettere lucidamente, bevendo il terrore goccia a goccia e perfino calcolando quanti minuti ancora ci vorranno prima che la lama lo sfiori indi ne laceri lentamente la veste di sargia, infine gli apra il cuore. All’ultimo momento, con un misto di abilità calcolatrice e d’incredibile sangue freddo, egli riesce a liberarsi dai lacci e a sottrarsi al contatto fatale; ma solo per vedere le pareti metalliche della cella arroventarsi e poi deformarsi, restringendosi e sospingendolo sempre più verso una orribile morte. All’ultimo istante, quando tutto sembra perduto, il supplizio è interrotto. Le truppe francesi sono entrate a Toledo e il prigioniero è tratto in salvo, miracolosamente.

“La vibrazione del pendolo era ad angolo retto rispetto alla mia lunghezza. Compresi che la mezzaluna era stata disegnata per attraversare la regione del cuore. Avrebbe sfrangiato la sargia del mio saio… sarebbe ritornata, avrebbe ripetuto questa operazione… all’infinito. Nonostante la sua oscillazione di ampiezza terrificante (circa dieci metri e più) e il vigore sibilante della sua discesa, bastevole a fendere quelle stesse pareti di ferro, per parecchi minuti esso non avrebbe fatto che accentuare lo sfrangiamento della mia veste. E dinanzi a questo pensiero la mia mente sostò: non osavo andare oltre questa riflessione. Mi soffermai su questo punto con attenzione petinace… Come se in questo mio soffermarmi della mente potessi arrestare la discesa dell’acciaio. Mi forzai a pensare al brusio della mezzaluna quando fosse passata attraverso l’indumento, a quella particolare vibrante sensazione che il fruscio delle vesti produce sui nervi. Indulsi a questa frivola considerazione finché mi sentii allegare i denti.

“E intanto quell’orribile arnese scendeva… scendeva senza posa. Presi un piacere frenetico a paragonare la sua velocità discendente con quella laterale. A destra, a sinistra, innanzi, indietro, ululando come uno spirito dannato, sempre più presso al mio cuore con il passo felpato della tigre! Io alternavo le risate alle strida a seconda che predominasse questo o quel pensiero. “Giù… giù, inesorabilmente, sempre più giù! Vibrava ormai a soli pochi centimetri dal mio petto…”.

poe2.jpgL’incubo della sepoltura da vivi è esplicitamente al centro del racconto Le esequie premature (come lo sarà in altri racconti, tra i quali Berenice, Ligeia e Il crollo della Casa Usher). Nella parte introduttiva di quest’opera, Poe sviluppa alcune riflessioni che potremmo definire filosofiche circa la difficoltà di delimitare con chiarezza la “zona grigia” che separa il regno della vita dal dominio della morte (precorrendo una analoga riflessione dell’epistemologo franco-polacco Mirko Grzimek, che alla morte e alla malattia ha dedicato, sul finire del Novecento, alcuni studi ormai entrati fra i classici del genere).

“L’infelicità vera, l’afflizione suprema è delimitata, non diffusa. E che le estreme ambasce dell’agonia siano sopportate dall’uomo individuo, non mai dall’uomo massa… sia ringraziato di questo un Dio misericordioso! Essere seppelliti ancora vivi è senza dubbio il più spaventoso di questi estremi che mai sia toccato in sorte a un essere mortale. Che ciò sia accaduto frequentemente, assai frequentemente, non sarà certo negato da color che pensano. I confini delimitanti la vita dalla Morte sono innegabilmente tenebrosi e vaghi. Chi può dire dove quella finisce e dove questa incomincia?”

Il racconto L’appuntamento è un gotico veneziano, un “notturno” dagli ingredienti un po’ convenzionali, sul quale non ci soffermeremo in questa sede. Ne approfittiamo invece per fare una riflessione di carattere generale. Non tutto quel che ha scritto Poe è arte; vi sono cose che ha scritto sotto l’urgenza della necessità economica (era “un forzato della penna”, un po’ come – in tutt’altro ambito e su tutt’altro piano – il nostro Emilio Salgàri -; e doveva fare i conti con i gusti del pubblico, che, in fatto di terrore, è sovente di palato alquanto grossolano. L’epoca in cui visse Poe è caratterizzata dall’avvento di una situazione del tutto nuova per lo scrittore. Scomparsa la committenza tradizionale, ora egli è a tu per tu con un pubblico molto più vasto ma anche più indifferenziato. Per tale ragione egli è più libero che in passato; ma anche, paradossalmente, più vincolato: perchè fra lui e il pubblico vi è il diaframma dell’industria editoriale, retta dalle ferree logiche del mercato (ancora la produzione, ancora l’homo oeconomicus: vera e grande maledizione della modernità); ed è essa il suo concreto interlocutore. Poe, per carattere e per convinzioni, intendeva l’arte come una sfera del tutto autonoma, e della sua arte di scrittore volle vivere, fin da giovanissimo, affrontando ogni sorta di difficoltà per non dover scendere a compromessi; ma è un fatto che i compromessi, specialmente come giornalista, dovette accettarli, in maggiore o minor misura; e la sua vasta opera letteraria, nella sua differente qualità artistica, ne mostra i segni più d’una volta. Ma torniamo ai racconti del terrore.

Con Berenice entriamo nel vivo di uno dei temi dominanti delle sue ossessioni erotiche: l’attrazione-repulsione per la donna esangue, spettrale, vera e propria controfigura della morte e della propria ansia di auto-distruzione; donna verso la quale si sente attratto – come il protagonista del notevole romanzo Fosca dello scapigliato Iginio Ugo Tarchetti – non già a dispetto dei segni evidenti della malattia, del decadimento e della prossima fine, ma appunto per quei segni: confine sottile, e tuttavia decisivo, fra l’eros “normale” e l’eros “sadico-anale” (direbbe Freud). Non aveva forse sostenuto, Poe, nella sua Filosofia della composizione, che “la morte di una bella donna è senza dubbio l’argomento più poetico del mondo”? (Del resto, questione di gusti; Virgilio, dal canto suo, avrebbe certamente ribattuto che l’argomento più è offerto dalla morte dei bei giovinetti, come i vari Eurialo, Niso, Lauso e Pallante attestano, imperversando nella seconda parte dell’). Sicché il binomio Eros- Thanatos, in Poe, non è mai direzionato dal primo al secondo elemento, bensì, immancabilmente, dal secondo al primo: è attraverso il presentimento della loro morte vicina che i protagoinisti maschili dei suoi racconti – indifferenti o solo distaccatamente ammirati in senso estetico allorché le fanciulle, agili e leggiadre, godevano di apparente buona salute – s’infiammano poi di un sinistro, incofessabile desiderio; spesso concentrato non sull’insieme della loro persona, ma – feticisticamente – su un particolare anatomico, su un dettaglio, come i denti, appunto, in Berenice, o gli occhi in Ligeia; e, per quel dettaglio, arrivano a compiere azioni orribili e inconfessabili.Eneide

“Era frutto della mia immaginazione eccitata, o dell’influenza nebbiosa dell’atmosfera, o del crepuscolo incerto della stanza, o erano forse i grigi panneggi che cadevano in pieghe attorno alla sua figura, che provocavano in questa un aspetto così vacillante e vago?- si chiede, con sgomento, il protagonista di Berenice. – “Non saprei dire. Ella non proferiva parola, e io… neppure con uno sforzo sovrumano sarei riuscito a pronunciare una sola sillaba. Un brivido di ghiaccio mi corse per le ossa; mi sentii opporesso da una sensazione d’insopportabile angoscia; una curiosità divorante mi pervase l’anima, e ricadendo all’indietro sulla sedia rimasi per qualche tempo immobile e senza fiato, gli occhi fissi sulla sua persona. Ahimé! La sua emaciatezza era estrema, e in tutto il suo aspetto non vi era più neppure una lontana traccia dell’antica creatura. Alla fine il mio sguardo bruciante si posò sul suo viso.

“La fronte era alta, pallidissima, stranamente serena.; e i capelli un tempo color del giaietto ricadevano parzialmente su di essa adombrando le tempie cave d’innumerevoli riccioli ora d’un giallo vivo e sgradevolmente discordanti nel loro fantastico aspetto con la malinconia predominante nelle sembianze di lei. Gli occhi erano senza vita, opachi, apparentemente privi di pupille, e io mi ritrassi involontariamente dalla loro vitrea fissità per contemplare le labbra sottili, affilate. Queste si aprirono, e in un sorriso di particolare significato i denti della mutata Berenice si dischiusero lentamente ai miei occhi. Volesse il cielo che io non li avessi veduti, o che dopo quell’attimo in cui io li vidi, fossi morto!”

Poco dopo Berenice muore e viene sepolta, forse con troppa precipitazione; ma ormai l’anima del protagonista è irrimediabilmente stregata dalla visione di quei denti bianchissimi, che la possiedono per mezzo di un fascino malsano. Nella pagina finale del racconto, la scena acquista gradualmente l’orribile chiarezza di una rivelazione che coglie di sorpresa lo stesso protagonista: in stato di sonnambulismo, egli si rende conto di aver commesso un atto esecrando e indicibile.

“Sul tavolo accanto a me bruciava una lampada, e accanto a questa era posata una piccola scatola. Non presentava alcuna caratteristica particolare e già io l’avevo veduta molte altre volte, essendo di proprietà del nostro medico di famiglia; ma come era venuta a finire lì, sul mio tavolo, e perché rabbrividivo nel guardarla? Non sapevo in alcun modo spiegarmi questo mio stato d’animo, finché i miei occhi caddero sulle pagine aperte di un libro, e precisamente su una frase sottolineata in esso. Erano le strane e pur semplici parole del poeta Ebn Zaiat: ‘Dicebant mihi sodales si sepulchrum amicae visitarem, curas mea aliquantulum fore levatas.‘ Perché dunque nello scorrere quelle poche righe i capelli mi si rizzarono sul capo, e il sangue del mio corpo si rallegrò entro le mie vene?

“In quella si intese all’uscio della biblioteca un bussare sommesso, e pallido come l’abitante di una tomba un domestico entrò in punta di piedi. Aveva lo sguardo alterato dalla paura, e si rivolse a me con voce tremante, soffocata, bassissima. Che cosa mi disse? Non afferrai che alcune frasi rotte. Mi narrò di un grido forsennato che aveva squarciato il silenzio della notte, che i familiari si erano radunati, che ricerche erano state fatte in direzione del grido, e a questo punto i suoi accenti divennero paurosamente distinti, mentre egli mi sussurrava di una tomba violata, di un corpo avvolto nel sudario sfigurato, eppure ancora respirante, ancora palpitante, ancora vivo. Parlando, il domestico appuntò l’indice contro i miei abiti; erano coperti di fango, e tutti ingrommati di sangue. Io non parlai, ed egli mi prese dolcemente la mano: era tutta segnata dall’impronta di unghie umane. Rivolse quindi la mia attenzione a un oggetto appoggiato contro la parete; lo fissai per alcuni minuti: era una vanga. Con un urlo, balzai verso il tavolo, afferrai la scatola che vi era posata sopra. Non ebbi però la forza di aprirla; tremavo tanto che essa mi scivolò di mano e cadde pesantemente frantumandosi in mille pezzi. Da essa, con un rumore secco, crepitante, uscirono rotolando alcuni strumenti di chirurgia dentaria, mescolati a trentadue piccole cose bianche, eburnee, che si sparsero qua e là sul pavimento.”

Dunque, l’uomo ha strappato uno ad uno i denti di Berenice, lottando con la donna ancor viva, ridestata – probabilmente – dal dolore provocatole; e venendo da lei graffiato; poi ha riportato in casa, e nascosto nella scatoletta, il suo prezioso e innominabile bottino. Il risvolto più intrigante del racconto sta proprio in questa dimensione inconscia dell’io del protagonista: il quale scopre, con raccapriccio, di aver fatto qualcosa che la sua coscienza desta non avrebbe mai osato nemmeno concepire.

In Berenice, quindi, manca l’elemento soprannaturale del terrore; in Morella esso è adombrato alla fine della vicenda perché, dopo aver sepolto successivamente la moglie e, molti anni dopo, la figlia – a lei terribilmente somigliante, e alla quale aveva imposto lo stesso nome -, il protagonista maschile scopre che la bara della “prima” Morella era vuota e si rende così conto che la “seconda” non era altri che la donna ritornata, inesplicabilmente, dall’altro mondo. Morella, diafana e taciturna creatura immersa nella scienza proibita di saperi antichissimi, prima di ammalarsi esercita uno strano fascino intellettuale sull’uomo, fascino che diviene apertamente sensuale solo dopo la morte di lei.

“In seguito, allorché, meditando assiduamente su pagine proibite, io sentivo accendersi entro di me uno spirito proibito, Morella soleva porre la sua fredda mano sulla mia, e frugare tra le ceneri di una filosofia morta qualche strana, singolare parola, il cui misterioso significato s’imprimeva bruciante nella mia memoria. Allora, per ore e ore, io indugiavo al suo fianco, inebriandomi della musica della sua voce, sino a quando, a un tratto, la sua musicalità si soffondeva di terrore. Allora un’ombra cadeva sulla mia anima, e io impallidivo e rabbrividivo interiormente a quegli accenti troppo ultraterreni. Allora la gioia si tramutava improvvisamente in orrore, e il supremamente bello si faceva ributtante, così come Hinnon divenne Gehenna”.

Ancora una volta, dunque, la linea ambigua e sottilissima che separa il sublime dall’orrido; ma, questa volta, considerata nel suo movimento dal primo al secondo, e non viceversa (come nel paesaggio naturale de Una discesa nel Maelstrom). La parte più intensa e originale del racconto, tuttavia, è quella in cui Poe descrive il sentimento torbido, tenebroso con cui il protagonista segue le ultime fasi della malattia mortale di Morella (la prima), attendendone la morte con un inconfessabile desiderio di liberazione – primo seme di quel futuro senso di colpa che, come nel caso di Roderick Usher, renderà particolarmente amari e terribili i giorni successivi al funebre evento.

“Dovrò dunque dire che attendevo con un desiderio ansioso, divorante, il momento del trapasso di Morella? Eppure è vero, ma il fragile spirito si avviticchiò al suo abitacolo di creta, per molti giorni, per molte settimane e tediosi mesi, sino a che i miei nervi tormentati ottennero il dominio della mia mente, e il ritardo mi infuriò, e con cuore demoniaco maledissi i giorni, le ore, gli amari momenti che sembravano allungarsi senza fine mentre la sua dolce vita declinava così come si allungano le ombre nello smorire del giorno”.

poe3.jpgIl binomio Eros-Thanatos si colora qui di evidenti tracce di sadismo e di inconscia necrofilia, poiché desiderare l’affrettarsi della morte di Morella significa anche pregustare il momento in cui ella non sarà che un corpo abbandonato, indifeso, un corpo interamente alla mercé del maschio: così come il corpo di Pentesilea, dopo essere stato trafitto a morte, accende il desiderio di Achille sotto le mura di Troia, e lo spinge all’estremo oltraggio della sua postuma bellezza.

In Ligeia, il particolare anatomico che scatena il morboso interesse del protagonista sono gli occhi; e Ligeia, del resto, si rivelerà una donna-vampiro, una non-morta (ispirando, probabilmente, il filone baudelaireiano della donna-vampiro nei Fleurs du Mal): non una vittima, come la sventurata Berenice, bensì una creatura immortale e pericolosa.

“Senza Ligeia ero come un bambino che si aggira tastoni la notte. La sua presenza, le sue letture semplicemente, rendevano vividamente luminosi i molteplici misteri del tradscendentalismo nel quale eravamo immersi. Senza il radioso splendore dei suoi occhi, le lettere, fiammee e dorate, divenivano più opache del piombo saturnio. Ed ecco che quegli occhi brillarono sempre meno di frequente sulle pagine da me compulsate. Ligeia si ammalò. I suoi occhi smarriti lucevano di un troppo… troppo glorioso fulgore: le pallide dita di lei assunsero la translucida cereità della tomba, le vene azzurrine della sua eccelsa fronte si inturgidivano e si afflosciavano d’impeto con l’avvicendarsi della finanche più lieve emozione. Compresi che ella sarebbe morta, e lottai disperatamente in ispirito con il funebre Azrael.”

Più tardi, alla morte di Ligeia, il protagonista ne veglia penosamente il cadavere; ma è una notte di orrore in cui l’impensabile può accadere, in cui i morti possono ridestarsi.

“Il cadavere, ripeto, si muoveva, e adesso più energicamente delle altre volte. I colori della vita ne invermigliavano con inconsueta energia il volto, le membra si rilassarono e, tranne che per le palpebre ancora pesantemente abbassate e per le acconciature e i panneggiamenti tombali che ancora davano alla figura un aspetto macabro, io avrei potuto immaginare che Rowena si fosse davvero liberata e per sempre dai legami della Morte. Ma se io non potevo accettare del tutto questa realtà neppure in quel momento, non mi fu più possibile dubitare allorché, levandosi dal letto, e vacillando con deboli passi, con occhi chiusi,, con l’atteggiamento di chi è reso attonito da un sogno, la cosa avvolta nel sudario avanzò audacemente, tangibilmente, sin nel mezzo della stanza”.

Ne Il crollo della casa degli Usher esiste una misteriosa, inesplicabile relazione tra l’antica dimora immersa nella nebbia dello stagno che la circonda, fatta di antichissime pietre solcate da una fenditura quasi impercettibile, e tuttavia nettissima, che l’attraversa tutta obliquamente; l’ultimo rampollo dell’antica casata, sir Roderick, sfibrato da una indefinibile malattia, o meglio somma di malattie, consistente – oltre che in una sindrome maniaco-depressiva, in una estrema, sorprendente acutizzazione dei cinque sensi, per cui egli può indossare solo abiti di un certo tessuto e vive nell’eterna penombra, al riparo da luci e da suoni troppo forti (dato che percepisce nettamente anche quelli più impercettibili); e la sorella gemella di lui, lady Madeline, a sua volta afflitta da una sconosciuta malattia, pallido fantasma che si spegne pochi giorni dopo l’arrivo del narratore, un vecchio amico d’infanzia di Roderick chiamato da una lettera d’aiuto quasi disperata. Il racconto è stato sezionato ed analizzato in termini di psicanalisi classica da un’allieva diretta di Freud, Maria Bonaparte, principessa di Grecia; colei che aiutò il maestro a fuggire dall’Austria invasa dai nazisti mediante l’Anschluss del 1938. Per lei, il dramma di Poe – qui sdoppiato nei due personaggi di Roderick e del narratore – consiste nell’amore incestuoso per la sorella e nel tradimento della madre (la madre perduta nella prima infanzia, “tradita” simbolicamente con la sposa-bambina Virginia), dunque in un senso di colpa che culmina nella catastrofe finale, in cui Roderick, Madeleine e la casa- utero di entrambi vengono distrutti simultaneamente. Anche qui, infatti, abbiamo una sepoltura affrettata della sventurata Madeline; anche qui la morta si ridesta per tornare dal fratello e condurlo a morte con sé, vittima del terrore che la sua apparizione gli suscita.

“Durante un giorno triste, cupo, senza suono, verso il finire dell’anno, un giorno in cui le nubi pendevano opprimentemente basse nei cieli, io avevo attraversato solo, a cavallo, un tratto di regione singolarmente desolato, finché ero venuto a trovarmi, mentre già si addensavano le ombre della sera, in prossimità della malinconica Casa degli Usher. Non so come fu, ma al primo sguardo che io diedi all’edificio, un senso intollerabile di abbattimento invase il mio spirito. Dico intollerabile poiché questo mio stato d’animo non era alleviato per nulla da quel sentimento che per essere poetico è semipiacevole, grazie al quale la mente accoglie di solito anche le più tetre immagini naturali dello sconsolato e del terribile. Contemplai la scena che mi si stendeva dinanzi, la casa, l’aspetto della tenuta, i muri squallidi, le finestre simili a occhiaie vuote, i pochi giunchi maleolenti, alcuni bianchi tronchi d’albero ricoperti di muffe: contemplai ogni cosa con tale depressione d’animo ch’io non saprei paragonarla ad alcuna sensazione terrestre se non al risveglio del fumatore d’oppio, l’amaro ritorno alla vita quotidiana, il pauroso squarciarsi del velo. Sentivo intorno a me una freddezza, uno scoramento, una nausea, un’invincibile stanchezza di pensiero che nessun pungolo dell’immaginazione avrebbe saputo affinare ed esaltare in alcunché di sublime. Che cos’era, mi soffermai a riflettere, che cos’era che tanto m’immalinconiva nella contemplazione dela Casa degli Usher?”

Nel corso di un drammatico colloquio, Roderick fnisce per rivelare all’amico -in parte – i terrori paurosi di cui è vittima, e profetizza l’approssimarsi della propria, inevitabile fine.

“Mi avvidi che era schiavo, legato mani e piedi, di una forma anomala di terrore. “Io morirò – mi disse – dovrò morire in questa disperata follia. Così, così, non altrimenti, mi perderò. Temo gli avvenimenti del futuro non di per se stessi, ma per i loro risultati. Rabbrividisco al pensiero di un fatto qualsiasi, anche il più comune, che possa operare su questa agitazione intollerabile del mio spirito. In realtà non rifuggo dal pericolo, se non nel suo effetto assoluto, cioè il terrore. In questo senso di smarrimento dei nervi, in questa pietosa condizione, temo che spraggiungerà presto o tardi il momento in cui mi vedrò costretto ad abbandonare la vita e la ragione insieme in qualche conflitto con il sinistro fantasma della paura”.

Ma non è un fatto qualsiasi, non è un conflitto con un fantasma indifferenziato quello che porta Roderick Usher alla rovina, bensì un evento preciso e una colpa (o un desiderio) inconfessabile: le esequie premature della sorella e il ritorno vendicativo di lei dalla cripta ove il suo corpo è stato momentaneamente deposto, in attesa della sepoltura definitiva. Durante una notte da tregenda, quando la tempesta spazza la casa e l’aria è satura di elettricità e di bagliori delle scariche temporalesche, l’amico cerca disperatamente di distrarre le angosce inenarrabili del padrone di casa e gli legge – invero poco opportunamente – la drammatica storia di Etelredo, l’eroe celtico; storia il cui finale sembra ricalcare e rievocare i terrori da cui l’animo di Roderick è sempre più turbato. Alla fine, questi erompe in un grido di disperazione e di raccapriccio:

“Non l’ho udito? Certo che l’ho udito! E lo odo ancora. Da tanto… tanto… tanto. Da molti minuti, da molte ore, da molti giorni, io lo odo, e tuttavia non ho osato… oh, pietà di me, miserabile sciagurato che sono! Non osavo… non osavo parlare! L’abbiamo calata nella tomba viva! Non ti dicevo che i miei sensi sono acutissimi? Ebbene ti dico adesso che io ho inteso persino i suoi primi deboli movimenti nella cavità del sarcofago. Vi ho avvertiti… molti, molti giorni fa… e tuttavia non osavo… non osavo parlare! Ed ecco che… stanotte… Ethlred… Ah! Ah! L’abbattersi dell’uscio dell’eremita, e l’urlo di morte del drago, e il clangore dello scudo!… Vuoi dire piuttosto l’infrangersi della sua bara, il suono stridente dei cardini di ferro della sua prigione, il suo dibattersi entro l’arcata foderata di rame della cripta! Oh, dove fuggire? Non sarà ella qui tra poco? Non sta forse affrettandosi per rimproverarmi la mia precipitazione? Forse che non ho inteso il suo passo sulle scale? Non distinguo forse lo spaventoso pesante battito del suo cuore? Pazzo! – A questo punto balzò in piedi come una furia e urlò queste parole come se nello sforzo esalasse tutta la sua anima: – Pazzo! Ti dico che ella sta ora in piedi fuori dell’uscio!

“Quasi che la sovrumana energia della sua voce contenesse la potenza evocatrice di un incantesimo, gli enormi antichi pannelli che egli additava, dischiusero lentamente, in quel medesimo istante, le loro poderose nere fauci. Fu senza dubbio l’opera dell’uragano infuriante; ma ecco che fuor di quell’uscio si ergeva veramente l’alta ammantata figura di lady Madeline Usher. Il suo bianco sudario era macchiato di sangue, e su tutto il suo corpo emaciato apparivano evidenti i segni di una disperata lotta. Per un attimo ella rimase tremante, vacillante sulla soglia, poi con un gemito sommesso e prolungato cadde pesantemente sul corpo del proprio fratello e nei suoi violenti e ormai supremi spasimi agonici lo buttò al suolo cadavere, vittima dei giustificati terrori che lo avevano agitato”.

“Da quella camera e da quella casa io fuggii inorridito. L’uragano infuriava ancora in tutta la sua collera mentre io attraversavo l’antico sentiero selciato. A un tratto rifulse sul viottolo una luce abbagliante e io mi volsi a guardare donde poteva provenire un così insolito fulgore, poiché dietro di me avevo soltanto l’immensa casa e le sue ombre. Il chiarore proveniva dalla luna calante, al suo colmo, sanguigna, che ora splendeva vividamente attraverso quell’unica fessura appena discernibile di cui ho già parlato e che si stendeva dal tetto dell’edificio in direzione irregolare, serpeggiante, sino alla sua base. Mentre guardavo, questa fessura rapidamente si allargò, il turbine di vento infuriò in supremo anelito, tutta l’orbita del pianeta si rivelò improvvisa alla mia vista, il mio cervello vacillò, mentre i miei occhi vedevano le possenti mura spalancarsi, s’intese un lungo tumultuante urlante rumore simile al frastuono di mille acque, e il profondo fangoso stagno ai miei piedi si chiuse cupo e silenzioso sui resti della Casa degli Usher”.

Nel racconto La maschera della Morte Rossa, di ambientazione apparentemente italiana, si narra di come il principe Prospero si rinchiude con un migliaio di amici e cortigiani in un formidabile castello, follegggiando di festa in festa mentre, tutt’intorno, una spaventosa epidemia di peste falcidia la popolazione, trasformando le sue vittime in altrettante orribili maschere, rosse per le chiazze sanguinolente che si diffondono su tutto il corpo. Ma un giorno, al culmine della festa, mentre un orologio batte ossessivamente le ore della notte suscitando oscuri presentimenti, un ospite sconosciuto si presenta ai convitati, vestito con le lacere vesti e con le orrende sembianze della Morte Rossa, suscitando un generale moto d’indignazione e di orrore.

“Anche per gli esseri più perduti, per i quali la vita e la morte sono egualmente motivo di beffa, esistono cose di cui non è possibile beffarsi. Tutti gli astanti insomma sentivano ormai che nel costume e nel portamento dello straniero non vi erano né spirito né decenza. La figura era alta e scarna, e avvolta da capo a piedi nei vestimenti della tomba. La maschera che ne nascondeva il viso era talmente simile all’aspetto di un cadavere irrigidito che anche l’occhio piiù attento avrebbe stentato a scoprire l’inganno. Eppure tutto ciò avrebbe potuto essere sopportato, se non approvato, dai gaudenti forsennati che si aggiravano per quelle sale: ma il travestimento aveva spinto tant’oltre la sfrontatezza da assumere le sembianze della ‘morte rossa’. Le sue vesti erano intrise di sangue, e la sua vasta fronte e tutti i lineamenti della sua faccia erano spruzzati dell’orrore scarlatto”.

Sdegnato, il principe ha un moto di ribellione, ma un inspiegabile terrore lo paralizza, insieme ai cortigiani, mentre lo straniero si allontana in mezzo ai convitati, attraversando una dopo l’altra le sette stanze colorate di un’ala poco frequentata del castello: la sala turchina, poi la purpurea, la verde, l’arancione, la bianca, la violetta e, ultima, la paurosa sala nera, done provengono i sinistri rintocchi dell’orologio a pendolo. Il principe Prospero, riavutosi dallo smarrimento e reso pazzo dalla vergogna per quella momentanea viltà, si slancia all’inseguimento armato di spada; ma, raggiunto lo straniero nella sala nera, un urlo d’agonia esce strozzato dalla sua gola, e il suo corpo si abbatte al suolo senza vita. Allora, raccogliendo il coraggio della disperazione, i suoi cortigiani si precipitano a loro volta nella sala decisi a vendicarlo, ma solo per rendersi conto, con inesprimibile terrore, che lo straniero non è affatto vestito in maschera: sotto il sudario non c’è alcuna forma tangibile, poiché egli è la Morte Rossa in persona, ed è giunto fra loro per perderli tutti.

“E allora tutti compresero e riconobbero la presenza della Morte Rossa giunta come un ladro nella notte, e ad uno ad uno i gaudenti giacquero nelle sale irrorate di sangue delle loro gozzoviglie, e ciascuno morì nell’atteggiamento disperato in cui era caduto. E la vita della pendola d’ebano si estinse con quella dell’ultimo dei baldorianti. E le fiamme dei tripodi si spensero. E l’Oscurità, la Decomposizione e la Morte Rossa regnarono indisturbate su tutto”.

Ne Il cuore rivelatore non compare alcun elemento soprannaturale, si tratta di una storia basata unicamente sulla psiche malata del protagonista; pure, Poe sa tendere a un punto tale l’arco della lucida, ossessionante analisi dei meandri tortuosi della psiche umana, da conferire al racconto un tono altamente impressionante e drammatico. Un vecchio ha preso in casa un giovane uomo, non si sa bene se come figlio adottivo o come servitore; ma quest’ultimo è letteralmente ossessionato da un particolare anatomico del padrone di casa: un occhio dalla palpebra velata, che gli ricorda un orribile occhio di avvoltoio. Il pregio maggiore di questo racconto consiste nel contrasto fra l’estrema, meticolosa lucidità con cui il protagonista analizza la situazione, agisce e descrive i fatti, e con cui rifiuta di essere considerato pazzo “perché i pazzi non sanno di esserlo”, mentre lui “ode tutte le cose del cielo e della terra” (vengono in mente le “voci” dei grandi santi e dei mistici, e come sia sottile il filo che le separa da stati di coscienza alterati di origine patologica), e l’abisso di feroce follìa omicida in cui egli si abbandona, andando incontro al suo inevitabile destino di auto-distruzione.

” È impossibile dire come l’idea mi sia entrata per la prima volta nel cervello. Ma non appena l’ebbi concepita mi ossessionò notte e giorno. Scopo non ne avevo. Odio neppure. Volevo bene al vecchio. Non mi aveva mai fatto del male. Non mi aveva mai insultato. Non desideravo il suo oro. Credo fosse il suo occhio! Sì, fu proprio così! Aveva l’occhio di un avvoltoio,un occhio pallido azzurro, coperto di una pellicola. Ogni volta che esso si posava su di me il mio sangue si raggelava, e così per gradi, oh, per gradi molto lenti, io decisi di togliere la vita al vecchio, e sbarazzarmi così per sempre di quell’occhio”.

Di notte, quando il vecchio dorme, il protagonista si avvicina piano piano alla sua camera, ne socchiude l’uscio con infinite precauzioni, indi proietta il raggio di una lanterna cieca sull’occhio di avvoltoio, restando inorridito e affascinato a contemplarlo, per ore ed ore.

Per sette notti consecutive, a mezzanotte, il folle rito si ripete: l’uomo ha già deciso di compiere il delitto, ma ogni volta rimanda, perché nel sonno l’occhio del vecchio rimane chiuso e appare normale; e non è il vecchio ch’egli vuole uccidere, ma il suo Occhio. Chi ha un poco di familiarità con le pagine della cronaca nera di questi ultimi anni avrà colto l’analogia con alcuni tremendi delitti, originati da una fissazione maniacale da parte dell’omicida, convinto di essere inesplicabilmente ma mortalmente minacciato da qualcosa che risiede nella sua vittima, qualcosa che egli non sa precisare, ma che “le voci” gli ordinano di eliminare per sempre. In genere, si tratta di delitti maturati nell’ambiente della magia nera e degli adoratori del diavolo: le “voci”, in questi casi, svolgono una lenta, metodica istigazione al delitto. Delitto che resta inspiegabile in termini razionali, poiché non è giustificato da moventi razionalmente riconoscibili; e anche il furto, ammesso che vi sia, non appare che una messa in scena per dare plausibilità all’assassinio. Ma nel racconto di Poe le “voci” non sono meglio precisate, e nulla suggerisce che vi sia un’ispirazione diabolica o un qualunque elemento soprannaturale. Anche la percezione dei battiti del cuore, che – come suggerisce già il titolo del racconto – provocheranno la scoperta del delitto, può avvenire solo nella fantasia malata del protagonista, sconvolto dal senso di colpa e da oscure manie di persecuzione.

“Dopo aver aspettato a lungo, con infinita pazienza, senza averlo udito riadagiarsi, decisi di socchiudere, oh, appena appena, una sottilissima fenditura nella lanterna. L’aprii dunque, non potete immaginare con quanta, quanta cautela, sinché un sottilissimo tenuissimo raggio, simile al filo d’un ragno, balzò fuor della fenditura e cadde in pieno sull’occhio d’avvoltoio. Era aperto, tutto aperto, completamente spalancato, e nel fissarlo la furia mi invase. Lo vedevo distintissimamente, tutto di un azzurro opaco, con quell’odioso velo che lo ricopriva e che faceva raggelare persino il midollo delle mie ossa; ma non potevo vedere altro del vecchio, né della sua faccia, né del suo corpo, poiché avevo rivolto il raggio come per istinto su quell’unico maledetto punto”.

Così, destato dal rumore, il vecchio si sveglia e grida spaventato, spalancando l’occhio deforme; e il protagonista, infuriato a quella vista, si slancia contro di lui e lo sopprime. Poi, davanti ai poliziotti che alcuni vicini hanno indirizato in quella casa, recita con perfetto sangue freddo la commedia dell’ignaro domestico: li invita a visitare l’abitazione, a fugare ogni sospetto. I resti del vecchio, atrocemente sezionato, giacciono sotto i palchetti di legno del pavimento, e quest’ultimo è stato ripulito e riassestato così bene, che nulla all’esterno trapela. Spinto da una baldanza insensata, da un isterico desiderio di trionfo, l’uomo trattiene deliberatamente i poliziotti, soffermandosi proprio nel punto ove giacciono i macabri resti. Ma ecco che al suo udito finissimo e sovreccitato cominciano a giungere i battiti del cuore della sua vittima: assurdamente, inspiegabilmente; e divengono sempre più forti, sempre più forti. Per un po’ egli tenta di coprirli con le sue parole; ma intanto una crescente agitazione si impadronisce di lui, e i suoi gesti e i suoi discorsi si fanno sempre più strani e alterati. Alla fine il battito è divenuto un rombo assordante, ed egli è convinto che anche gli altri lo odano, ma fingano il contrario per farsi beffe di lui, per deriderlo.

“Senza dubbio dovevo essere diventato pallidissimo, ma seguitavo a discorrere sempre più animatamente, a alzando il tono della mia voce. Nondimeno il rumore aumentava, e che cosa potevo fare? Era un rumore sommesso, soffocato, veloce, assomigliava moltissimo al rumore che fa un orologio quando è avvolto nel cotone. Ansimai: mi sentivo il fiato mozzo; e tuttavia i poliziotti non lo avevano avvertito. Parlai ancora più in fretta, con irruenza ancora maggiore, ma il rumore aumentava inesorabilmente. Mi alzai e presi a discutere di sciocchezze, in tono di voce altissimo e gesticolando violentemente, ma il rumore cresceva implacabile. Perché non se ne andavano? Incominciai a passeggiare innanzi e indietro a lunghi passi, quasiché i discorsi di quegli uomini mi avessero infuriato, ma il rumore cresceva, cresceva sempre. Oh, Dio! Che cosa potevo fare? Schiumavo, vaneggiavo, bestemmiavo! Volsi di scatto la seggiola su cui mi ero messo a sedere, la trascinai sulle tavole, ma il rumore copriva ogni cosa aumentando continuamente. Si faceva sempre più forte, sempre più forte, sempre più forte! E tuttavia gli uomini seguitavano a discorrere piacevolmente, e sorridevano. Era mai possibile che non udissero? Dio onnipotente! No, no! Certo che lo udivano! Sospettavano! Sapevano! Si beffavano della mia disperazione! Questo pensai, e questo penso. Ma qualsiasi cosa era meglio dell’angoscia mortale che mi attanagliava! Qualsiasi cosa era più tollerabile di quella derisione! Non potevo più sopportare quei sorrisi ipocriti! Compresi che dovevo urlare o altrimenti sarei morto! Ed ecco, ancora! Ascoltate! Più forte! Più forte! Più forte! Più forte!
“- Mascalzoni! – urlai, – smettetela di fingere! Confesso il delitto! Togliete quelle tavole! Qui, qui! È il battito del suo odioso cuore!”

La situazione finale de Il cuore rivelatore si ritrova in un altro celebre racconto del terrore di Poe, Il gatto nero. Qui un uomo, dedito all’alcool e ai disordini, dapprima uccide crudelmente il proprio gatto, impiccandolo a un albero; poi si salva a stento dall’incendio della propria casa, mentre sulla parete semi-carbonizzata appare la sagoma gigantesca di un gatto. Più tardi, trova per caso, all’osteria, un altro gatto, misteriosamente identico al primo, e lo porta con sé nella nuova casa. Qui, in un momento di furore, cava un occhio alla bestia e subito dopo, con una scure, assassina la propria moglie e nasconde il cadavere, murandolo dietro una parete. Anche qui si presentano i poliziotti per fare delle indagini: ispezionano la casa (il gatto, frattanto, è scomparso), ma non trovano nulla e stanno per andarsene, quando avviene la terribile rivelazione.

“Signori – dissi infine, mentre già stavano salendo i gradini – sono lieto di avere calmato i vostri sospetti. Vi auguro buona notte, e vi porgo i miei omaggi. A proposito, signori, questa… questa è una casa costruita meravigliosamente bene – (Nel desiderio morboso di parlare con disinvoltura, quasi non mi rendevo conto delle parole che proferivo). Posso dire anzi che è una casa costruita in maniera eccellente. Queste pareti, ve ne state già andando, signori?, queste pareti, guardate come sono solide! – E a questo punto, in una vera frenesia di sfida, picchiai pesantemente con la mazza che tenevo in mano proprio su quel tratto di opera muraria dietro il quale stava il cadavere della moglie che io avevo tanto amata.

“Ma possa Iddio proteggermi e liberarmi dagli artigli dell’Arcidemonio! Non appena gli echi dei miei colpi si furono spenti nel silenzio, ecco che ad essi una voce rispose dal segreto loculo! Era un pianto, dapprima soffocato e interrotto, come il singhiozzare di un bambino che rapidamente si enfiò sino a divenire un unico lungo, alto, continuo urlo, indicibilmente strano e inumano, un ululato, uno stridio guaiolante, per metà di orrore e per metà di trionfo, quale solo avrebbe potuto levarsi dal fondo dell’inferno, se le gole di tutti i dannati nella loro angoscia e tutti i demoni nell’esultanza della dannazione umana si fossero insieme congiunte.

“Di quel che fossero i miei pensieri in quel momento è follia parlare. Sentendomi venir meno, arretrai barcollando verso la parete opposta. Per un attimo i poliziotti, giunti in cima alle scale, ristettero immobili, raggelati dall’orrore e da una specie di acana paura. Un attimo dopo dodici braccia robuste si davano da fare attorno alla parete. Questa cadde di colpo in tutta la sua massa. Il cadavere, già quasi interamente decomposto e chiazzato di sangue raggrumato, apparve eretto dinanzi agli occhi degli agenti. Sul suo capo, con la rossa bocca spalancata e l’unico occhio di fiamma, sedeva lo spaventoso animale la cui malizia mi aveva indotto al delitto, e la cui voce rivelatrice mi aveva consegnato al boia. Avevo murato il mostro entro la tomba!”

Se l’uccisione del primo gatto (e la mutilazione del secondo) può ricordare l’uccisione dell’albatro ne La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge, la scoperta del delitto rimanda ai racconti polizieschi dello stesso Poe, mentre il tema della vittima murata nelle cantine ritorna in un altro racconto del terrore interamente privo di elementi sovrannaturali: Il barilozzo di Amontillado, anch’esso (come La maschera della Morte Rossa) di ambientazione genericamente italiana. Ma, se ne La maschera della Morte Rossa il soggetto può essergli stato ispirato dalla situazione iniziale del Decameron di Boccaccio (la “peste nera” del 1348 e la “lieta brigata” dei giovani fiorentini), qui il tema dominante è la vendetta, lucida e spietata, freddamente covata per anni e dissimulata al fine di poter meglio soprendere l’avversario, che da carnefice diventa vittima impotente (con un totale rovesciamento di ruoli rispetto alla situazione precedente, di cui pochissimo viene detto al lettore). Epica e moralistica è dunque l’ispirazione dell’altro racconto, psicologica e “banale” – della banalità del Male, appunto – quella di quest’ultimo.

Montrésor decide di vendicarsi delle lunghe offese di Fortunato; e un giorno, durante il carnevale, lo conduce, semi-ubriaco, a visitare le cantine del suo palazzo, con la scusa di mostrargli un prezioso barilozzo di Amontillado, poiché lo sa esigente intenditore di vini. Giunto nella parte più profonda dei sotterranei, lo ammanetta alle catene predisposte sulla parete, quindi inizia a disporre i mattoni con la calce, strato su strato, in maniera da murarlo vivo, lentamente, nel buio. Fortunato, che è vestito da giullare, scuote i campanelli del suo berretto nel fremito di orrore, quando comincia a rendersi conto che Montrésor non sta affatto scherzando, e che – nel giro di pochi minuti – si troverà sepolto vivo, nell’oscurità totale, destinato a una lunga, orribile agonia, mentre nessuno saprà mai cosa gli è accaduto.

“Era ormai mezzanotte, e la mia opera stava per terminare. Avevo completato l’ottavo, il nono e il decimo strato. Avevo finita una parte dell’undicesimo e ultimo; non mi restava più a commettere e cementare che una sola pietra. Lottavo con il suo peso; la posai parzialmente nel suo posto designato. Ma ecco giungermi dalla nicchia un riso sommesso che mi fece rizzare i capelli in capo. A questo seguì una voce triste che ebbi difficoltà a riconoscere per quella del nobile Fortunato. La voce diceva:
” – Ah! Ah! Ah! Ih! Ih! Ih! Gran bello scherzo davvero: una beffa magnifica. Ne faremo di risate a questo proposito al palazzo: Ih! Ih! Ih! A proposito del nostro vino… Ih! Ih! Ih!
” – L’Amontillado -, dissi.
” – Ih! Ih! Ih! Ih! Ih! Ih! Già, l’Amontillado. Ma non si sta facendo tardi? Non ci staranno aspettando al palazzo, madonna Fortunato e gli altri? Andiamocene.
“- Già – dissi -, andiamocene.
“- Per l’amor di Dio, Montrésor!

” – Già – ripetei -, per l’amor di Dio!
“Ma attesi invano una risposta a queste parole. Divenni impaziente… chiamai forte…
“- Fortunato!
“Nessuna risposta. Chiamai di nuovo…
“- Fortunato!

“Ancora nessuna risposta. Infilai una torcia nel piccolo vano rimasto aperto e la lasciai cadere nell’interno. Mi giunse in risposta soltanto un tintinnio di campanelli. Il mio cuore ebbe un brivido: era l’umidità delle catacombe che produceva in me questo effetto. Mi affrettai a terminare la mia bisogna. A forza spinsi in sito l’ultima pietra e la cementai. Contro la nuova opera murararia reinnalzai l’antico contrafforte d’ossa. Da mezzo secolo nessuna creatura mortale le ha più disturbate. In pace requiescant.”

Ancora la vendetta, una vendetta feroce, disumana, è al centro di un altro racconto che alcuni considerano uno dei migliore del Poe “nero”: Hop Frog. È la storia di come un nano buffone si vendica di uno sgarbo del suo re, inducendolo a travestirsi da scimmione, insieme ai suoi dodici consiglieri, e poi li fa bruciare vivi mentre ruotano, sospesi a una sorta di giostra di legno che gira in circolo, sotto gli occhi di tutta la corte. A noi non pare un racconto degno del miglior Poe: e non perché vi manchino l’elemento soprannaturale o, genericamente, l’elemento del mistero, ma perché si tratta semplicemente di una storia orribile, descritta con noiosa pedanteria, in cui la sproporzione fra l’offesa ricevuta dal nano (anzi, da una sua amica) e la vendetta da lui consumata è talmente abissale da suscitare ripugnanza e disgusto nel lettore. Non si tratta di un’offesa o di una minaccia immaginaria (come ne Il cuore rivelatore), ciò che renderebbe interessante la psicologia del delitto; il nano di Hop Frog è una creatura malvagia che non ha nulla di patologico e nulla di demoniaco: è semplicemente un essere umano capace di serbare un immenso rancore e di attuare lucidamente una rivalsa che va al di là di ogni immaginazione, dopo di che, riesce a farla franca, fuggendo per i tetti. Non vi è il senso di una giustizia divina, come ne La maschera della morte rossa, e non vi è possibilità di una catarsi, per quanto remota, attraverso l’espiazione del male fatto, come ne Il gatto nero. È il trionfo del male puro e semplice, senza insegnamenti per alcuno, senza una morale; di una intelligenza sottile e tortuosa, cui unico scopo è placare il ressentiment di un orgoglio ferito da parte dell’inferiore verso il superiore. È, lo ripetiamo, una vuota storia orribile, non una storia dell’orrore; il piano di guerra del nano feroce è descritto con fastidiosa meticolosità, ma senza il lampo di genio che aveva fatto del protagonista de Il cuore rivelatore un’anima infelice, tormentata ed estremamente interessante.

Concludiamo queste riflessioni sull’opera di Edgar Allan Poe riportando una riflessione del suo biografo Philip Lindsay: “Tormentato nell’anima, cercò non la pace ma l’infelicità, creando a se stesso situazioni disperate, solitudine e desolazione”. Poe, infatti, non fa morire i suoi personaggi per poter, lui, sopravvivere; non li fa seppellire vivi per morire con loro e poi risorgere, metaforicamente: egli si getta a capofitto negli orrori che sa evocare con mano abilissima, quasi pervaso da un’ansia di punizione e di auto-distruzione. E la sua misera morte, in stato di delirium tremens, dopo che lo avevano raccolto – incosciente – per le vie di Baltimora, ai primi di ottobre 1849, ha il sapore di una catastrofe annunciata. Probabilmente, era stato drogato o ubriacato da una squadra di reclutatori di voti per le elezioni politiche in corso, che poi lo aveva abbandonato privo di conoscenza; ma, in un senso più profondo, quella morte egli l’aveva a lungo cercata – con terrore, ma anche con desiderio. Pochi istanti prima di spirare, si era levato sul letto d’ospedale e aveva pronunciato, come fra sé, queste sole, brevi parole: “Oh signore, aiuta la mia povera anima!”. Forse non aveva trovato la risposta alle sue molte domande, ma aveva infine trovato la pace per il suo spirito tormentato.

* * *

Conferenza tenuta dall’Autore a Oderzo, il 16 marzo 2007, nel Palazzo Foscolo (via Garibaldi, 80), nell’ambito delle manifestazioni di “Oderzoinquieta” (9 marzo-29 aprile 2007), a cura della Fondazione Oderzo Cultura e del Comune di Oderzo.

jeudi, 06 mai 2010

Mark Twain, critique de l'impérialisme américain

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Anton SCHMITT:

Mark Twain, critique de l’impérialisme américain

 

Beaucoup d’écrivains ont écrit plusieurs livres mais ne sont véritablement devenus célèbres que grâce à un seul de leurs ouvrages. Mark Twain est né sous le nom de Samuel Langhorne Clemens le 30 novembre 1835 dans le Missouri et est mort, il y a tout juste cent ans, le 21 avril 1910 dans le Connecticut. Il a acquis la célébrité sous son pseudonyme de Mark Twain. Il avait quatre ans lorsque sa famille emménagea dans la petite ville d’Hannibal sur les rives du Mississippi, lieu qui devint plus tard le théâtre des aventures de Huckleberry Finn. En 1847, le père de Mark Twain meurt; celui-ci commence alors à apprendre le métier de typographe. Son frère achète ensuite la feuille locale et c’est dans ce support-là que notre auteur écrira ses premiers et brefs articles. Après avoir atteint l’âge de dix-huit ans, il quitte Hannibal et devient timonier sur l’un de ces grands bateaux fluviaux qui assurent la navigation sur le Mississippi et sur le Missouri. Quand éclate la guerre civile américaine, cette navigation est interrompue sur les deux grands fleuves. Mark Twain devient soldat dans les armées confédérées mais abandonne son service dans la cavalerie au bout de deux semaines et décide de partir vers l’Ouest. Après un examen de conscience, il finit par adhérer intellectuellement au camp “yankee”. En 1862, il se trouve à Virginia City dans le Nevada où il exerce le métier de journaliste. En 1863, il se manifeste pour la première fois sous le pseudonyme de Mark Twain. Son itinéraire le mène toujours plus à l’Ouest, toujours plus loin de la guerre. En 1864, il s’intalle à San Francisco. Dans les années 70 du 19ème siècle, il se rend pour la première fois en Europe et au Proche Orient et séjourne longtemps en Allemagne, pays qu’il adorait. En 1891, lors de sa seconde tournée en Europe, le dernier empereur d’Allemagne, Guillaume II, l’invite à déjeuner avec lui. En 1870, il avait épousé Olivia Langdon et s’était installé, dans le Nord, dans le Connecticut. Sa voisine était Harriet Beecher-Stowe qui le conforta dans son attitude hostile à l’esclavage. 

 

Une étude comparative de ces deux auteurs et de leurs principaux ouvrages mérite d’être faite. En 1876, Mark Twain écrit Tom Sawyer et en 1883, Les aventures de Huckleberry Finn. Ces deux ouvrages sont devenus des classiques de la littérature pour la jeunesse, tout en contestant, à l’époque, la teneur de la littérature conventionnelle pour les jeunes qui ne présentait que des gamins modèles ou des petites filles sages. A l’époque, Twain avait fait scandale en campant un héros, Tom Sawyer, qui fait l’école buissonnière et qui, au lieu de mobiliser ses efforts pour atteindre l’idéal du bien-être matériel, s’acoquine avec un paria de village sans le sou, qu’il admire de surcroît, mais finit quand même par devenir riche.

 

Les bonnes consciences politiquement correctes estiment aujourd’hui que Les aventures de Huckleberry Finn méritent de sévères critiques car l’esclave de la Veuve Douglas, est appelé “Nigger Jim” dans le livre. Le terme “nègre”, au départ utilisé sans le moindre jugement de valeur, et a fortiori sans intention insultante, pour désigner les personnes de race à pigmentation foncée, est aujourd’hui considéré comme un vocable à connotation “raciste”, alors que le terme “nigger”, devenu, lui, une injure classique dans le vocabulaire dénigrant du racisme, demeure assez peu connu comme tel chez les non anglophones. Les bonnes consciences s’en offusquent, incapables qu’elles sont de resituer correctement une oeuvre littéraire dans le contexte de son époque. Les deux romans destinés à la jeunesse sont effectivement le reflet de la société américaine à l’époque de Mark Twain qui ne s’empêchait nullement d’en faire la critique. L’hypocrisie religieuse, le monde des pauvres, des strates sociales déshéritées, le désir pathologique d’atteindre la puissance pour la  puissance et l’âpreté au lucre  —la maladie  emblématique de l’Amérique pour Twain—  et l’esclavage dans les Etats du Sud ont tous fait l’objet de critiques sévères dans l’oeuvre de notre auteur. Ses flèches les plus acérées, il tentait toujours de les décocher en s’aidant de l’humour et de la satire. Le temps qu’il avait passé sur les rives du Mississippi et ses expériences personnelles, qu’il a manifestement travaillées pour en faire la matière première de son oeuvre littéraire, ont fait de lui un chroniqueur crédible. Le destin de “Nigger Jim”, pour pitoyable qu’il ait été, est décrit tout en laissant transparaître malgré tout une certaine joie de vivre.

 

L’ouvrage principal de sa voisine Harriet Beecher-Stowe est tout différent. Elle a tenté, avec succès, dans La case de l’Oncle Tom, d’inciter les masses de l’Union à haïr les Confédérés et à les pousser à la guerre alors qu’elle ne s’était jamais rendue dans le Sud, comme on s’en est aperçu ultérieurement. La description du planteur avare, esclavagiste, vicieux et maniant le fouet, une caricature de la réalité, avait pour but de dépeindre une figure inhumaine qui méritait bien d’être exterminée. Des jeunes gens, après avoir lu ce livre, se sont joyeusement engagés dans les troupes nordistes pour partir dans une guerre atroce et aller mourir dans les espaces en friche de la Virginie ou à Cold Harbour, tout en croyant combattre pour une cause juste et bonne. Contrairement au scénario mis en place par Harriet Beecher-Stowe, qui justifie à l’avance le meurtre et le lynchage, et même la guerre, comme seuls moyens de prêcher la libération, Mark Twain, lui, met en scène la libération de son “Nigger Jim” de manière pacifique. La propagande de guerre, toute ruisselante de haine, n’était nullement la tasse de thé de Mark Twain.

 

Dans les années 90 du 19ème siècle, il fut l’une des figures du mouvement anti-impérialiste aux Etats-Unis et fustigea à coups de commentaires caustiques les guerres que menait son pays contre l’Espagne, les Philippines, contre l’annexion de Puerto Rico et des Iles Mariannes. En 1891, comme nous venons de le dire, il entama sa seconde tournée en Europe et se choisit Berlin comme ville de résidence. C’est à partir de la capitale du nouveau Reich bismarckien qu’il  commençait ses tournées de conférences, afin de payer ses dettes. Il resta neuf ans dans le “Vieux Monde”. La langue allemande, qui, comme à bien d’autres, lui paraissait compliquée, fut souvent la cible de son humour et donna lieu à beaucoup de jeu de mots (comme la confusion entre: “Festgäste” – Commensaux- et “fresst feste” – “bouffez fêtes”).

 

Plus tard, il envoya ses filles étudier en Allemagne. Twain rédigea enfin un biographie du Général le plus célèbre de l’armée “yankee”, plus tard élu Président des Etats-Unis, Ulysses S. Grant. Il appartenait à une loge maçonnique. En 1901, l’Université de Yale lui octroya un diplôme de docteur honoris causa.

 

Anton SCHMITT.

(Article paru dans “zur Zeit”, Vienne; n°16/2010; trad. franç.: Robert Steuckers). 

mercredi, 05 mai 2010

Mark Twain: ironia e libertà

Mark Twain: ironia e libertà

di Marco Iacona

Fonte: secolo d'italia

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Della compagnia del grande scrittore Mark Twain, morto cento anni fa (il 21 aprile del 1910) a Redding nel Connecticut, avremmo bisogno tutt’oggi. Ed è per questo che ne parliamo ancora. Del suo senso dell’humor in primo luogo, della sua critica al conformismo, delle prese in giro, delle denunzie dei falsi miti e di tutte le glorie (che così ovviamente non furono), dei più classici “tempi che furono”. La sua vita fu insieme uno sberleffo e una ribellione contro quel qualcosa di difficilmente classificabile, a metà fra storia e sentimento, che non faceva parte dello spirito americano o meglio del suo di spirito, fatto di avventura e di semplice ricerca della verità. Twain fu scrittore anche molto scomodo, così in anticipo sui tempi da essere volontariamente ignorato per quello che scriveva (soprattutto nel campo del giornalismo); i parenti furono costretti a bruciare molti dei suoi manoscritti perché pericolosi per le comunità dei religiosi. Twain rispose alla “censura” in modo bonario, con uno dei tanti aforismi per i quali sarà universalmente noto: «solo ai morti è permesso di dire la verità». Oltretutto aveva con la professione di giornalista uno strano rapporto di amore (senz’altro) e di generosa avversione grazie a una filosofia del buon gusto e del saper vivere insieme: «Per prima cosa dovete avere ben chiari i fatti; così potete distorcerli come vi pare», diceva.  
Per questo strano feeling con la “verità” (perfino nelle comuni espressioni) e per essersi trovato ben più in là da certo anonimo quotidiano, Mark Twain venne classificato come il più americano fra gli scrittori d’America e per questo qualcuno affermò anche che «tutta la letteratura moderna statunitense viene da un libro di Mark Twain Huckleberry Finn. Tutti gli scritti americani derivano da quello. Non c’era niente prima. Non c’era stato niente di così buono in precedenza». A pensarla così nientemeno che Ernest Hemingway in compagnia di William Faulkner.
Si potrebbe cominciare dal suo nome allora che non era come forse alcuni sapranno Mark Twain, ma Samuel Langhorne Clemens; lo pseudonimo che lo ha reso famoso in tutto il mondo ha origini marinare come ricordano gli esperti di narrativa fantastica Gianni Pilo e Sebastiano Fusco: «“Mark Twain! Segna due braccia!”, gridavano, nel dialetto del Sud, gli scandagliatori sui battelli che percorrevano il Mississippi, segnalando al timoniere la profondità del fondale, ad evitare il rischio di incagliarsi sulle secche. Il giovane Samuel Longhorne Clemens, che su quei battelli aveva trascorso infanzia e giovinezza, quando cominciò a scrivere e pubblicare, volle scegliersi proprio quel grido come pseudonimo». Si potrebbe cominciare così, per comprendere la sua personalità di uomo libero, concreto quanto basta, innamorato delle scienze fisiche, libertario per sé e soprattutto per gli altri (fece parte della “American anti imperialism league”, lega  contraria all’annessione delle filippine da parte statunitense). Twain era aperto al mondo come ci si sarebbe atteso solo da un grande americano della sua generazione (era nato nel 1835), abbandonò presto gli studi a causa della morte del padre e fece mille mestieri, fu tipografo (apprendista), mercante, scrittore umorista, marinaio sui battelli, soldato nella Guerra Civile dalla parte dei Confederati, poi cercatore d’oro, reporter, viaggiatore instancabile e conferenziere nelle università. Conobbe e visitò non solo l’America ma il mondo intero in lungo e in largo e si fece conoscere a trent’anni grazie al racconto “ Il Ranocchio saltatore”; aveva “solo” quarant’anni invece quando divenne uno degli uomini più famosi d’America. Per comprendere la sua modernità – che avrebbe riversato negli scritti – si deve pensare a Mark Twain come un uomo che sarebbe arrivato primo degli altri in tanti piccoli-grandi gesti del quotidiano e della vita professionale. Lasciamo la parola a Pilo e Fusco allora: «Diceva di essere legato allo spirito paesano del “Profondo Sud”, ma in realtà era il più moderno degli scrittori. Fu il primo ad usare la macchina da scrivere e la stilografica, e a dettare un libro al grammofono. Scrisse i testi di alcune canzonette che divennero enormemente popolari. Fece dell’editoria un’industria da grandi cifre: rimase celebre l’anticipo di duecentomila dollari (di allora) da lui pagato per assicurarsi in esclusiva le memorie del generale Grant». Fu dunque un uomo molto ricco e famoso ma non sempre fortunato negli affari e nel privato. Passò la vecchiaia fra crisi e lutti familiari.
Gli studiosi raccontano quanto la vita di Mark Twain sia stata complicata (quasi fossero esistite più persone in una), sfaccettata, colma di lezioni e di contraddizioni riversate anch’esse nelle opere. E naturalmente hanno ragione. Due in particolare le più note e lette da generazioni di giovani (anche se, soprattutto la seconda delle due è tutt’altro che un libro per ragazzi perché venne perfino radiato dalle biblioteche): Le avventure di Tom Sawyer (1876) e Le avventure di Huckleberry Finn (1884). Detti libri altro non sarebbero (nell’immaginazione dei teorici) se non le diverse parti – almeno tre – della stessa vita dello scrittore. «Se alla fine di quella che abbiamo definito la prima fase della sua vita Clemens assomiglia in un certo senso a Tom Sawyer», scrive Guido Carboni autore per Mursia di un invito “alla lettura” dello scrittore americano, «è cioè una sorta di adolescente in fondo romantico e soprattutto desideroso di attrarre l’attenzione del mondo raccontando storie, più o meno abbellite nel ricordo e nella elaborazione narrativa delle proprie avventure, alla fine della seconda fase potremmo dire che assomiglia di più ad Huck, nonostante i suoi 50 anni. Come Huck ha accumulato molta esperienza della vita e degli uomini, anche se sembra molto meno disposto di Huck a perdonare i loro difetti, e una discreta ricchezza. Come Huck continua a dire di volersi distaccare al mondo di cui è entrato a far parte, di voler “scappare di casa” verso più liberi territori, ma resta a casa cercando un equilibrio nella doppia identità di rispettabile cittadino convinto del proprio ruolo di Pierino ribelle, fustigatore della stupidità del mondo che lo circonda. Solo che in Clemens queste tensioni non sembrano veramente trovare un accettabile equilibrio».
The Adventures of Huckleberry Finn è probabilmente il capolavoro di Twain ed è il seguito di “Tom Sawyer” (dove il personaggio di Huck che vive in un barile era già apparso). È il romanzo di un giovane figlio di un ubriacone «senza casa, senza famiglia, senza educazione, ozioso, sfrenato, malvagio». Malgrado tutto - o forse proprio per la sua personalità ribelle – divenuto «beniamino» dei giovanissimi del villaggio. La storia è quella di un ragazzo che non vuol cedere alla mancanza di libertà; la fama del romanzo è dovuta in primo luogo allo “scontro interno” fra civiltà e natura selvaggia; corruttrice la prima roussoianamente buona la seconda. Il punto di vista dal quale Twain racconta la storia (come per esempio il successivo nostro “Giornalino di Gian Burrasca” di Vamba o “Il Barone rampante” di Italo Calvino), è però quello del protagonista ribelle, nel libro manca infatti una morale perbenista - e vittoriana - in grado di far pendere la storia dal lato della cosiddetta civiltà e della ragione degli educatori.
Nel libro è assente la «”correzione” di una morale finale che dimostri come la disobbedienza, i “vizi”, la mancanza di decoro siano negativi e portino chi li pratica ad una brutta fine», probabilmente perché Twain da grande narratore autobiografico aveva presente la differenza fra un’esistenza vissuta nel rischio e il suo esatto contrario. Non sempre poi, per lui, quel mondo reale messo su nel tempo, mattone su mattone, rispondeva a un armonico disegno di libertà e verità. Per questo, per l’autore dell’ironico Un americano alla corte di re Artù occorreva una gran dose d’avventura per battere i “tiranni” del tempo, e con essa naturalmente alcuni preziosissimi aforismi: «Non abbandonare le tue illusioni. Se le lascerai, continuerai ad esistere, ma cesserai di vivere». Ecco: tanto basta per ricordarci di lui.                        
          


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dimanche, 28 février 2010

Ezra Pound: The Liberty of Subsidy

Copie_de_Ezra_Pound_1971.jpgThe liberty of subsidy

Ex: http://rezistant.blogspot.com/
Liberty is defined in the declaration of the Droits de l’homme, as they are proclaimed on the Aurillac monument, as the right to do anything that ne nuit pas aux autres. That does not harm others. This is the concept of liberty that started the enthusiasms in 1776 and in 1790. I see a member of the Seldes family giving half an underdone damn whether their yawps do harm or have any other effect save that of getting themselves advertised. If you were talking about the liberty of a responsible Press that is a different kettle of onions, and is something very near to the state of the Press in Italy at the moment. The irresponsible may be in a certain sense "free" though not always free of the consequences of their own irresponsibility, whatever the theoretical government, or even if there be no government whatsoever, but their freedom is NOT the ideal liberty of eighteenth-century preachers. A defect, among others, of puritanism, or of protestantism or of Calvin the damned, and Luther and all the rest of these blighters whom we Americans have, whether we like it or not, on our shoulders, is that it and they set up rigid prohibitions which take no count whatsoever of motive. Thou shalt not this and that and the other. This is a shallowness, it is the thought of inexperienced men, it is thought in two dimensions only.

What you want to know about the actions of a friend or mistress is WHY did he or she do it? If the act was done for affection you forgive it. It is only when the doer is indifferent to us that we care most for the effect. Doc Shelling used to say that the working man (American or other) wanted his rights and all of everybody else’s.“ The party ” in Russia has simplified things too far, perhaps ? too far ?We have in our time suffered a great clamour from those who ask to be “governed,” by which they mean mostly that they want to run yammering to their papa, the state, for jam, biscuits, and persistent help in every small trouble. What do they care about rights? What is liberty, if you can have subsidy?

Ezra Pound, Jefferson and/or Mussolini. L´idea statale. Fascism as I have seen it.. Stanley Nott, London 1936.

samedi, 13 février 2010

Nicholson Baker et le mythe de la "guerre juste"

Nicholson Baker et le mythe de la “guerre juste”

 

nicholson baker.jpgNicholson Baker est un romancier américain bien connu: il a acquis une réputation (sulfureuse) en Allemagne, où son roman “Vox”, consacré à cette nouvelle forme de sexualité et d’érotisme qui se construit via le téléphone, a connu un succès retentissant. Mais Nicholson Baker a décidé, récemment, de ne plus se consacrer exclusivement aux romans ou à la sexualité par procuration technologique qui turlupine ses contemporains. Son nouvel ouvrage, “Menschenrauch” en allemand, “Fumée humaine”, est consacré à la seconde guerre mondiale. Quelle est la motivation qui a poussé notre auteur à changer de registre? La guerre en Irak! Elle a été vendue au public américain et britannique comme une “guerre juste”, menée par les “bons” contre un “méchant”, que l’on vouait à l’avance au gibet. Cette simplification propagandiste et belliciste, profondément cruelle parce qu’assénée avec bonne conscience, Nicholson Baker l’a tout de suite rejetée, instinctivement. Comme plus d’un pacifiste anglo-saxon, l’hypocrisie et l’hystérie des “guerres justes” menées tambour battant par Londres et Washington l’ont induit à se poser la question cruciale: existe-t-il vraiment une “guerre juste” en soi, et les guerres décrétées  “justes” de jadis ont-elles été vraiment été aussi “justes” qu’on nous l’a enseigné?

 

Nicholson Baker va se pencher sur la “guerre juste” considérée urbi et orbi comme “paradigmatique”: la seconde guerre mondiale. Dans le langage quotidien, dans les évidences médiatiques assénées à tire-larigot, cette deuxième guerre mondiale est bien la guerre la plus juste d’entre toutes les guerres justes, puisqu’elle a éradiqué le “mal absolu”, le nazisme, animé par d’abominables croquemitaines, aidés par des légions grouillantes de petits belzébuths zélés (selon Goldhagen) ou des esthètes pervers (selon Jonathan Littell). La rééducation médiatique, cinématographique et hollywoodienne nous enseigne tout cela avec grande acribie depuis des décennies, a fortiori depuis “Holocauste” et, tout récemment encore avec “Inglorious Bastards”. L’intention de Nicholson Baker n’a nullement été de pondre le énième essai “révisionniste”, « relativiste » ou critique, comme on en trouve des quantités industrielles dans les rayons des librairies anglophones. Son approche peut paraître sobre, voire sèche, mais, en tout cas, elle est très innovatrice: son livre appelle, sans pathos ni trémolos, à dénoncer la marotte de mener des “guerres justes” et à démasquer la colossale hypocrisie anglo-saxonne d’avoir baptisé “guerre juste” la seconde guerre mondiale ; pour atteindre cet objectif, l’ouvrage, volumineux, est construit d’une manière absolument originale ; il juxtapose un nombre impressionnant de coupures de textes, d’extraits de livres ou de discours, glanés dans les bibliothèques ou les archives, dans les collections de vieux journaux. Nicholson Baker les a classés par ordre chronologique. Il n’a utilisé que les sources accessibles, en posant comme principe cardinal de sa démarche que « la vérité se cache dans le monde ouvert, visible ».

 

Sa collection de citations et d’extraits de presse commence en 1892 par un fragment d’Alfred Nobel, qui dit espérer que l’invention de ses explosifs terrifiants va mettre un terme à l’envie de faire la guerre. Elle se termine par un extrait du journal de l’antifasciste judéo-allemand Victor Klemperer; il est daté du 31 décembre 1941 et son auteur exprime ses doutes quant à l’avenir de l’humanité, tant les appels au carnage le désolent et le révulsent. Entre cette première et cette dernière citation, une quantité d’assertions posées par des personnalités connues ou inconnues ou d’anecdotes révélatrices comme celles-ci : le 3 novembre 1941, l’ambassadeur britannique est bombardé d’œufs par des pacifistes américains alors qu’il tient un discours à Cleveland aux Etats-Unis ; le 4 novembre, un avion japonais lance des denrées alimentaires contaminées sur une ville chinoise ; le 5 novembre, le ghetto de Lodz en Pologne est ceinturé d’une nouvelle barrière de barbelés – motif : on attend un « arrivage » de Tziganes venus d’Autriche.

 

humansmoke2222.jpgCe livre a provoqué un tollé aux Etats-Unis : on n’a pas manqué de reprocher à Nicholson Baker de professer un « pacifisme naïf et spécieux » ; on l’accuse d’avoir « trahi la mémoire des morts », et surtout de deux grands morts, Churchill et Roosevelt, rien que parce qu’il a cité quelques-uns de leurs textes, pour prouver qu’ils ont délibérément voulu la guerre. On reproche aussi à Nicholson Baker d’avoir voulu prouver l’antisémitisme des alliés et donc d’avoir dit, par ricochet, que l’antisémitisme n’était pas une caractéristique exclusive de l’Axe. En refusant ainsi de localiser l’antisémitisme dans le seul camp allemand, Nicholson Baker aurait dédouané le nazisme et la personne d’Hitler. Telle n’était pas son intention, bien sûr, mais les manichéisme qui président aux discours bellicistes et aux narrations véhiculées par les médias ne tolèrent aucune entorse à leurs schémas binaires : il faut les accepter benoîtement ou subir ostracisme et inquisition. Si Hitler a été indubitablement antisémite, ses adversaires n’étaient pas exempts du même mal, sauf que, chez eux, il était sans doute moins virulent, déclamé de manière moins spectaculaire. Il est vrai que l’historiographie israélienne actuelle, qui n’est pas tendre avec la « narration sioniste » dominante jusqu’ici au sein de l’Etat hébreu, n’omet pas de rappeler que les maximalistes sionistes de l’entre-deux-guerres avaient des sympathies pour l’Axe et pour l’IRA, considéraient que les Britanniques étaient tout à la fois les ennemis principaux de la cause sioniste et les alliés des Arabes en Palestine et en Transjordanie et que les membres du LHI et de l’Irgoun ont lutté contre la présence anglaise et, partant, contre l’Angleterre en guerre contre le Reich et l’Italie fasciste, jusqu’en 1942, année où leurs activistes principaux ont été éliminés par l’action conjuguée des services britanniques et de la Haganah sioniste mais pro-alliée. Pour reprendre le combat contre l’Angleterre dès 1944, bien avant l’effondrement définitif du IIIème Reich (!!), et le continuer jusqu’en 1948, notamment contre la Légion Arabe du général écossais Glubb Pacha. Là encore, dans l’histoire récente du Proche-Orient, les manichéismes ne sont plus de mise dans la communauté scientifique, que l’on appartienne ou soutienne l’un camp ou l’autre.

 

On est peut-être en droit de dire, sans risque de fort se tromper, que les citations alignées par Nicholson Baker au fil des pages de son dernier ouvrage sont « subjectives ». Mais en alignant de tels textes, qui ne cadrent pas avec ce que l’on nous prie instamment de croire dur comme fer aujourd’hui, Nicholson Baker ne juge pas : il fait parler les citations et laisse son lecteur libre de former son propre jugement, parce qu’il lui apporte des éclairages nouveaux, lui ouvre des perspectives nouvelles et insoupçonnées. Ce livre nous enseigne surtout que cette fameuse « guerre juste d’entre les plus justes » que fut la seconde guerre mondiale n’a pas été menée pour les grands principes, pour la liberté ou la démocratie, ou par solidarité pour les communautés israélites d’Europe centrale persécutées, mais pour de simples raisons de puissance et d’hégémonie, d’égoïsme impérial. Avec cet ouvrage, et sans doute bien d’autres que les machines médiatiques nous dissimulent, nous entrons dans l’ère d’une historiographie allergique à toutes les orthodoxies imposées, d’une historiographie qui nous fait voyager dans le réel même, c’est-à-dire dans une immense zone grise, entre le « bien »  lumineux et le « mal » obscur.

 

Version allemande du livre de Nicholson Baker :

« Menschenrauch. Wie die Zweite Weltkrieg begann und die Zivilisation endente » (= « Fumée humaine. Comment la deuxième guerre mondiale a commencé et la Civilisation s’est achevée »), Rowohlt, Hambourg, 640 pages, 24,90 euro.

 

(source : Christel Dormagen, «  ‘Menschenrauch’ : Nicholson Baker viel gelobtes, viel gescholtenes Buch gegen den Mythos vom ‘gerechten Krieg’ », in : « Rowohlt Revue », n°87, Frühjahr 2009. Adaptation française : Dimitri Severens).

mercredi, 06 janvier 2010

Lovecraft, il bambino che invento l'horror

Lovecraft, il bambino che inventò l'horror

di Francesco Boco

 
Articolo di Francesco Boco
Dal Secolo d'Italia di sabato 6 settembre 2008 / Ex: http://robertoalfattiappetiti.blogspot.com/

Gli anniversari, si sa, sono un’ottima occasione per rispolverare, o scoprire ex novo, i grandi autori. In questo scorcio d’estate, dunque, vale la pena soffermarsi su uno dei maestri indiscussi della letteratura horror e di fantascienza, insieme a Edgar Allan Poe: Howard Philips Lovecraft, del quale si è da poco celebrato il l’anniversario della nascita.
Nichilista. Cinico. Freddo. Così, di recente l’Espresso ha definito lo scrittore francese Michel Houellebecq, autore de Le particelle elementari, vicende di uomini in cerca di un nucleo. Ma quelle tre incisive e rapide parole possono ben adattarsi a descrivere l’autore a cui lo stesso romanziere francese dedicò il suo primo libro nel 1991: H. P. Lovecraft – contro il mondo, contro la vita (Bompiani). Il pamphlet è agile e gradevole, in ossequio al costume francese. Si fa portare volentieri in tasca per essere letto durante una passeggiata, pur non trattando di argomenti propriamente “allegri”. È un suggestivo colpo d’occhio sulla vita e l’opera dello scrittore americano.
Lovecraft, che molto più che autore “di genere” è uno dei maggiori scrittori americani del secolo scorso, nasce il 20 agosto 1980 nel Rhode Island, da un’agiata famiglia borghese. Perde presto il padre e si affeziona molto al nonno Whipple Phillips, dal quale eredita la ricca biblioteca e la passione per la lettura. Tra quegli scaffali il giovane Howard conosce la grande letteratura, le scienze e la mitologia e la sua fantasia inizia a viaggiare, tanto che a sette anni è già autore di brevi racconti fantastici e inizierà presto a essere affascinato dall’inanimato e dal maestoso.
Dopo una crisi nervosa, durante la quale stracciò quasi totalmente i suoi scritti giovanili, nel 1913 viene contattato per degli articoli scientifici dalla United amateur press association, collaborazione che poi si concretizzerà dal 1919, anno in cui Lovecraft riprenderà con entusiasmo l’attività narrativa, potendo finalmente trovare uno sbocco espressivo, seppure amatoriale, ai suoi scritti. Ispirato da grandi maestri come Lord Dunsany, William Hope Hodgson e Arthur Machen scrisse racconti dell’orrore “classico” come La tomba, La dichiarazione di Randolph Carter o Il terribile vecchio, a cui ben presto si affiancarono racconti anticipatori dell’universo mitico per cui è diventato celebre: Dagon (1917) e Nyarlathotep (1920). In questi ultimi ad esempio s’iniziano a intravedere le titaniche e folli città dei “grandi antichi”, gli dèi mostruosi che gorgogliano nell’oscurità stellare. Stupefacenti racconti di fantascienza dove si parla di dimensioni in bilico tra la veglia e il sogno, in cui mostruosi intermediari degli “altri Dèi” e creature informi iniziano a fare la loro comparsa. Con i racconti degli anni seguenti, Lovecraft darà vita al “ciclo di Cthuluh” e a quello di Randolph Carter.
Nel 1923 esce il primo numero della rivista di “science-fiction” Weird Tales, il primo magazine professionale dedicato ai racconti del fantastico e che negli anni costituirà per Howard Phillips il principale sbocco pubblicistico. Nel marzo del 1924 si trasferisce a New York con la giovane moglie Sonia Greene. Qui Lovecraft non si sentirà mai a suo agio. Da “socialista reazionario”, profondamente conservatore e puritano, non riuscirà ad adattarsi alla vita della grande metropoli e la sua paura e avversione per gli immigrati lo travolgerà con delle punte di xenofobia ben note ai critici letterari. A New York prosegue intanto il suo ingrato lavoro di correttore di bozze, che spesso però si trasforma in vera e propria riscrittura di racconti per conto terzi. Tanto che l’edizione completa dei racconti per Mondadori include anche quelli scritti in “collaborazione”. Lo stesso anno, ad esempio, scrisse Sotto le piramidi, su commissione del mago Houdini; perdutolo alla stazione di Providence, dovrà riscriverlo in luna di miele. A New York Lovecraft cerca un impiego, ma il disprezzo per il “business” e la vita movimentata della città lo rendono ben presto insofferente e fu ben felice di fare ritorno alla sua amata Providence nel 1926, in seguito a un trasferimento della moglie nel Midwest per opportunità di lavoro.
Mentre il matrimonio finirà di lì a breve, la sua vena creativa, dopo l’avvilente periodo trascorso nella Grande Mela, è assai prolifica e in questo periodo compaiono molti dei suoi racconti migliori e più famosi. Lo straordinario Il caso di Charles Dexter Ward, Il colore venuto dallo spazio fino al romanzo breve Le montagne della follia (1931). Quest’ultimo era un omaggio al grande Edgar Allan Poe. Si ispirava e proseguiva in quale modo le vicende del romanzo Le avventure di Gordon Pym, prolungandone le suggestioni sull’esplorazione dell’Antartide, allora ancora inesplorato.
I mostruosi miti stellari lovecraftiani prendono forma, compaiono Cthuluh, un terribile incrocio tra un polipo, un toro e un essere volante, altre creature fatte di spore o colori mai visti e così via. La fantasia del “solitario di Providence” è di una vastità e di una potenza straordinarie e la sua scrittura fredda, quasi medica, non fanno che accentuare il senso di disagio e inquietudine che i racconti trasmettono al lettore. L’anno scorso Bompiani ha raccolto, a cura di Gianfranco de Turris, i testi del ciclo di Randolph Carter sotto il titolo Il guardiano dei sogni. Questa interessante iniziativa editoriale presenta un lato meno conosciuto dello scrittore di “cosmic horror”: ci troviamo davanti a una serie di racconti del fantastico che solo in parte hanno a che vedere con l’orrore extraterrestre dei Grandi Antichi. È la vicenda di un lungo viaggio avventuroso, in cui magia e mito, oscurità e luce, s’intrecciano con un ritmo incalzante. Le suggestioni egizie amate da Howard si intravedono nella splendente Città del tramonto e la magia dei gatti lo segue per tutto il viaggio. Si respira un’aria esotica e come rileva giustamente il curatore, qui Lovecraft/ Carter è un novello Ulisse, un cercatore, un viandante che va in cerca della città meravigliosa, e finirà per trovare se stesso. È un racconto che conserva, come molti dell’autore, una costruzione mitica, ma l’immaginazione e il sogno hanno un ruolo determinante. E Lovecraft continua a interrogarci beffardo sulla realtà dei nostri sogni.
Ciò che negli anni ha reso grande questo autore è stata la capacità di superare i vecchi canoni del racconto “gotico” per raggiungere nuove capacità espressive e nuove dimensioni dell’orrore. La paura è inestirpabile dall’animo umano, diceva, e su questo sentimento così radicato egli insistette con grande intensità in tutta la sua opera. Come accennato nasce con Lovecraft l’orrore cosmico, l’orrore cioè che richiama dimensioni altre, al di là di quella semplicemente umana e terrestre. La dimensione del sogno e l’irrazionale fanno la loro comparsa nel mondo e finiscono con l’annientare la vita umana. Il mondo dell’uomo sembra davvero nulla al cospetto dei “grandi antichi”, immobili creature senza vita e senza morte, che scrutano dai più lontani abissi stellari la piccola terra.
Inventò anche la leggenda attorno al libro maledetto chiamato Necronomicon, un trattato blasfemo e proibito in cui sarebbero contenute le formule per evocare i “grandi antichi”. Attorno al mito di questo libro misterioso è fiorita tutta una letteratura fantastica di amanti dell’immaginario e dell’irreale.
L’universo lovecraftiano ha influenzato moltissimi autori contemporanei di racconti dell’orrore o del fantastico, da Stephen King a Fritz Lieber fino al giovane Neil Gaiman artefice del postmoderno e sognante American Gods. Il mondo dei videogiochi è a sua volta debitore all’immaginario legato agli orrori stellari, è il caso della serie Alone in the dark, e anche il cinema ha più volte cercato di omaggiare, con risultati davvero da dimenticare, il maestro di Providence. Tra i pochi, merita d’essere ricordato l’anticonformista John Carpenter, che è riuscito a rendere omaggio a Lovecraft col film Il seme della follia (titolo originale In the Mouth of Madness, che gioca evidentemente con il già citato racconto Le montagne della follia).
Recentemente anche il bonelliano Martin Mystère si è richiamato ampiamente alla mitologia di Cthuluh e orrori vari nel numero di giugno/luglio dal titolo “L’orrore oltre la soglia”, dove tra misteriose cripte e incisioni incomprensibili spunta persino un viscido e gigantesco Cthuluh pronto a fare la pelle agli intrepidi che hanno osato risvegliarlo.
Howard Phillips Lovecraft merita davvero di essere ricordato. La sua influenza sulla letteratura e l’immaginario è immensa e, nonostante le condanne di alcuni censori alla Moorcock, le poche parole incise sulla lapide ancora tengono viva la memoria di un uomo che davvero è diventato un simbolo, e che a ragione ha potuto dire di sé: «Io sono Providence».
Francesco Boco. Nato nel 1984, è specializzando in Filosofia con una tesi su Oswald Spengler e Martin Heidegger. Ha tradotto e curato il saggio di Guillaume Faye su Heidegger, Per farla finita col nichilismo. Collabora a quotidiani e riviste, tra cui: Secolo d’Italia, Letteratura-Tradizione, Divenire e siti web come http://www.uomo-libero.com/ .

samedi, 19 décembre 2009

Une biographie d'Ezra Pound: le cercle du poète disparu

ezra-pound-negli-anni-giovanili1.jpgUne biographie d'Ezra Pound

Le cercle du poète disparu

 

 

« Avec le véritable artiste, II y a toujours un résidu, il y a toujours en lui quelque chose qui ne passe pas dans son œuvre. Il y a toujours une raison pour laquelle l'individu est toujours plus intéressant à connaître que ses livres. » Cette définition qu'Ezra Pound a pu faire de l'artiste en général résume très précisément le propos de la biographie que John Tytell a consacré à l'auteur des Cantos, car si Ezra Pound demeure pour nombre d'écrivains le poète le plus important de son siècle, que dire du personnage baroque et provocateur qu'il s'est efforcé d'être tout au long d'une vie calquée sur l'histoire ?

 

Qu'on ne s'y trompe pas. Malgré son prénom aux consonances bibliques et les airs de prophète qu'il prenait volontiers vers la fin de sa vie, Ezra Pound n'a été ni dans son œuvre ni dans son existence l’enfant de cœur tourmenté par la notion de péché ou d'humilité. Dis­sident de l'Amérique, du mauvais goût et des valeurs approximatives d'un pays où la Bible et le dollar tiennent lieu de référence, Pound l'est déjà dès son plus jeune âge. « J'écrirai, déclare-t-il à l'âge de douze ans, les plus grands poèmes jamais écrits ». En cette fin de XIXe siècle, en plein Wild West américain, il se découvre une vocation poétique pour le moins incongrue si l'on en juge par les préoccupations de ses compatriotes de l'époque, plus soucieux de bâtir des empires financiers que de partir en guerre contre des moulins à vent. Pendant des années, en subissant les vexations des cuistres, il va se consacrer à l'étude du provençal et à l'art des ménestrels et troubadours précurseurs de la littérature moderne.

 

L'éducation européenne

 

La provocation, ou plutôt le mépris des conventions auquel il restera attaché tout au long de sa vie, ne vont pas tarder à indisposer les habitants des diverses bourgades où il étudie et professe l'art de la poésie. Ses amours avec une sauvageonne de quinze ans, des poèmes comme L'arbre, témoins, comme le note Tytell, d'un paga­nisme croissant, et sa haine de l'Amérique sont le signe avant-coureur que sa vie entière allait devenir un défi lancé aux systèmes occidentaux et une dénonciation de la religion moderne qu'il tenait pour la servante de ces systèmes. Les conflits incessants avec le monde universitaire qui lui refuse quelque chaire, l'ordre moral et l'étroitesse d'esprit de ses contemporains vont avoir pour conséquence le départ de Pound pour l'Europe. Venise, tout d'abord, où il s'exerce au dur métier de gondolier, puis Londres, où son talent va enfin éclore. C'est pour lui le temps des amitiés littéraires avec George Bernard Shaw, puis James Joyce, T.S. Eliot.

 

« Les artistes sont les antennes de la race », déclare-t-il, se faisant ainsi le chantre d'un élitisme et d'une aristocratie de l'art dont il pensera, des années plus tard, trouver une représentation dans le fas­cisme italien.

 

Le Londres aux mœurs victo­riennes ne nuit en rien pour l'heure à l'effervescence d'un génie que l'on commence à voir poindre ici et là dans les revues auxquelles il collabore. La guerre de 14 éclate et nombre des amis de Pound n'en reviendront pas. « C'est une perte pour !'art qu'il faudra venger écrit-il, plus convaincu que quiconque que cette guerre est une plaie dont l'Europe aura bien du mal à cicatriser. Peu après, il se met à travailler à un nouveau poème, « un poème criséléphan­tesque d'une longueur incommen­surable qui m'occupera pendant les quatre prochaines décennies jusqu'à ce que cela devienne la barbe ». Les Cantos, l'œuvre maitresse et fondamentale de Pound, était née.

 

Rencontre avec Mussolini

 

Puis, las de la rigueur anglaise et des Britanniques qu'il juge snobs et hermétiques à toute forme d'art, Pound décide de partir pour la France.

 

Il débarque dans le Paris léger et enivrant de l'après-guerre lorsque brillent encore les mille feux de l'intelligence et de l'esprit. Les phares de l'époque s'appellent Coc­teau, Aragon, Maurras et Gide. Pound s'installe rue Notre-Dame­-des-Champs et se consacre à la littérature et aux femmes. À Paris toujours, il rencontre Ernest Hemingway, alors jeune joumalis­te, qui écrira que « le grand poète Pound consacre un cinquième de son temps à la poésie, et le reste a aider ses amis du point de vue matériel et artistique. Il les défend lorsqu'ils sont attaqués, les fait publier dans les revues et les sort de prison. »

 

La France pourtant ne lui convient déjà plus. À la petite histoire des potins parisiens, il préfère l'Histoire et ses remous italiens. L'aura romanesque d'un D'Annun­zio et la brutalité de la pensée fas­ciste l'attirent comme un aimant.

 

À Rapallo, comme Byron avant lui, Pound partage son temps entre l'écriture – « Les Cantos sont de plus abscons et obscurs », écrit-il à son père –, la réflexion politique et la natation. Son épouse et sa maîtresse enceinte se côtoient tant bien que mal, alors que lui-même flirte davantage avec le régime fas­ciste. En 1933, il rencontre Mussoli­ni pour l'entretenir de ses théories économiques auxquelles le Duce ne prêtera pas la moindre attention. Le « vieux Mussy » confiera toutefois à Pound qu'il a trouvé ses Cantos « divertenti ». « Depuis quand es-tu économiste, mon pote ? lui écrit Hemingway, la dernière fois que je t'ai vu, tu nous emmerdais à jouer du basson ! »...

 

La même année, Pound obtient une tribune à la radio de Rome. L'Amérique, « Jew York » et Confu­cius vont devenir ses chevaux de bataille. Pendant des années, le délire verbal et l'insulte vont tenir lieu de discours à Pound, un genre peu apprécié de ses compatriotes...

 

En 1943 le régime fasciste s'écroule, mais la République de Salo, pure et dure, mêlera la tragédie au rêve. Les GI's triomphants encagent le poète à Pise avant de l'expédier aux États-Unis pour qu'il y soit jugé. « Haute trahison, intelligence avec l'ennemi », ne cessent de rabâcher ses détracteurs nombreux. Pound échappe à la corde mais pas à l'outrage d'être interné pendant douze ans dans un hôpital psychiatrique des environs de Washington. Lorsqu'on lui demanda de quoi il parlait avec les toubibs, il répondit : « D'honneur. C'est pas qu'ils y croient pas. C'est simplement qu'ils n'en ont jamais entendu parler. »

 

Le 9 juillet 1958, le vieux cowboy revient à Naples et dans une ultime provocation répond à l'attente des journalistes par le salut fasciste, dernier bras d'honneur du rebelle céleste.

Christian Ville Le Choc du Mois n° 30 - Juin 1990

 

Ezra Pound, le volcan solitaire, de John Tytell, Ed. Seghers.

mercredi, 04 novembre 2009

Trece poetas argentinos y un homenaje a Ezra Pound

Trece poetas argentinos y un homenaje a Ezra Pound

“ARGENTARIUM”, UNA ANTOLOGIA BILINGÜE DE LOS POEMAS CORTOS DEL ESCRITOR

En 1885, en una cabaña de Idaho, en la norteamerica profunda, nacía un bebé de nombre Ezra y de apellido Pound. A poco de crecer, Ezra fue expulsado por conductas indecorosas como ayudante universitario, emigró a Europa y desde allí fue el padre maldito de la poesía norteamericana contemporánea, promotor e influjo de las vanguardias literarias en el mundo. Hoy el sello Ediciones en Danza le rinde tributo con “Argentarium”.

El título corresponde a un libro bilingüe que, bajo la mirada atenta del poeta Jorge Aulicino, reúne las traducciones que 13 poetas argentinos de distintas generaciones hicieron sobre la obra de Pound a lo largo del último siglo. Desde la versión que en 1946 Rodolfo Wilcock publicó sobre La Primavera, hasta los recientes trabajos de Ezequiel Zaidenwerg. Los créditos de las traducciones no están debajo de cada uno de los 47 poemas incluidos, sino al terminar el libro. El fin buscado es el de exaltar la obra poética y poner en segundo plano la intervención de los traductores.

Esta decisión produce un segundo efecto, curioso. Porque si, efectivamente, una voz homogénea parece recorrer los textos, hay una segunda voz que, si bien prudente, por momentos emerge del Pound universal: es la voz de un Pound rioplatense.


A pesar de su presencia intermitente, el uso del voceo, la incorporación de términos coloquiales o locales como “chicos” en vez de “niños”, y hasta la decisión que Aulicino toma al elegir -con todo lo que connota en estas tierras- la palabra “asado” para referirse a la carne asada al horno en el poema Versos gnómicos, son rasgos que diferencian a “Argentarium” de cualquier otra antología del poeta en lengua castellana. Decisiones que, cuando se toman, armonizan con la idea que el propio Pound tenía de la traducción: traducir lenguas, épocas, situaciones culturales, generar textos autónomos respecto de los originales e, incluso, a veces, rubricarlos con la firma del traductor.

Cuenta Javier Cófreces, poeta y director de Ediciones en Danza, que hacía más de 20 años que no se publicaban libros con traducciones argentinas de Pound. La decisión de “Argentarium” es, en cierto modo, una toma de posición en el campo intelectual.

Pound es un padre incómodo para la literatura norteamericana y para la poesía contemporánea en general. “Está claro que su genio y figura resultan más conocidos por los escándalos políticos, que por la lectura profunda y minuciosa de su obra” opina Cófreces.

“Argentarium” comienza con las traducciones que ya habían sido publicadas. Son los trabajos de Alfredo Weiss, Rodolfo Wilcock, Carlos Viola Soto, Marcelo Covian, E.L. Revol, Jorge Perednik y Gerardo Gambolini.

A continuación aparecen las traducciones inéditas hasta el momento. Son las de Jorge Aulicino, Jorge Fondebrider, Javier Cófreces-Matías Mercuri, Jonio González, Ezequiel Zaidenwerg y Silvia Camerotto.

En uno y otro caso, la mitad de los poemas elegidos por traductores y poetas, corresponden a “Lustra”, un libro en que Pound experimenta cabalmente con la utilización del verso libre. Una práctica que marcó a fuego los últimos cien años de poesía.

Gabriel Reches

Extraído de Clarín.

~ por LaBanderaNegra en Octubre 22, 2009.

jeudi, 15 octobre 2009

Entretien avec Mary de Rachewiltz, fille d'Ezra Pound

ezra_pound.jpgARCHIVES DE SYNERGIES EUROPEENNES - 1997

Entretien avec Mary de Rachewiltz, fille d'Ezra Pound et gardienne d'un mythe

 

BRUNNENBURG (Bozen). Près du village de Tyrol (cette fois il s'agit du village et non de la région) se trouve le château de Brunnenburg, ensemble composé de deux constructions bizarres: d'un côté le Musée Agricole, qui abrite les reliques de la culture paysanne, et de l'autre, le corps de logis parsemé d'escaliers en colimaçon aussi raides que nombreux. Mary de Rachewiltz, la fille d'Ezra Pound, est une dame divinement courtoise qui aime étudier ses interlocuteurs de ses grands yeux un peu scrutateurs. Au deuxième étage, nous pénétrons dans un salon bien aéré, décoré de dizaines de masques africains, de papyrus patiemment collectionnés par le prince Boris, le fameux égyptologue, mari de notre hôtesse, et de précieux petits livres de poèmes alignés minutieusement dans des vitrines.

 

«Au printemps  —explique Mme de Rachewiltz—  l'étage inférieur est le siège de l'Association Temps Réel, qui organise des expositions d'art. Par contre, pour les expositions consacrées un peu partout à Pound, je mets toujours à disposition les documents, les livres et les portraits. Voulez-vous voir la tête de Pound sculptée par Henri Gaudier-Brzeska?». Nous revenons au rez-de-chaussée. Dans une vaste salle tapissée de livres et de photos, avec les escabeaux et les supports que le poète construisait lui-même à l'aide d'équerres et de colle, nous pouvons admirer la tête du poète. Gaudier est mort en l915, à 23 ans. Pound est mort à 87 ans en 1972.

 

Madame, dans votre très bel ouvrage intitulé Discrétions, publié il y a quelques années chez Rusconi, votre mémoire s'arrête subitement quand paraît à l'horizon le monsieur qui est devenu votre mari, et vous ne nous racontez plus rien de la période la plus terrible de la vie de Pound, quand il fut interné à l'asile criminel de Saint-Elisabeths pendant plus de douze ans, entre 1945 et 1957. Pourquoi?

 

Dans la version italienne, il manque ce que j'appelle la queue, le Happy End de l'odyssée de la famille. Je ne l'ai pas incluse simplement parce que j'en avais assez de m'auto-traduire et peut-être aussi parce que je n'avais pas compris le message de Pound jusqu'au bout.

 

C'est-à-dire?

 

Voyez-vous, quand mon mari et moi achetâmes cette maison nous étions deux jeunes gens de vingt ans, complètement sans le sou, riches seulement de rêves et de fantaisies, des espoirs et des mythes de notre génération. Combien de fois n'avais-je pas entendu mon père parler de la Tour de Yeats! Pendant combien de temps n'avais-je pas espéré, tout comme lui, reconstruire le monde, avec les bras et le cerveau en syntonie, pour venir à bout de ce mystère qu'est la vie? Mais Brunnenburg, à la fin de la guerre, n'était plus qu'un tas de ruines inhospitalières et il absorbait tout notre temps.

 

En d'autres mots, vous êtes en train de me dire que...

 

Je veux simplement dire que pendant plusieurs années nous ne pûmes pas nous offrir le luxe d'aller aux Etats-Unis pour rendre visite à mon père. Cela nous fut possible seulement en 1953.

 

Quel genre d'établissement était le Saint Elisabeths?

 

Ce n'était pas un asile. C'était plutôt un enfer qui suscitait l'angoisse à chaque pas. Mais cela n'était pas grave pour mon père.

 

Comment cela?

 

Il avait trouvé l'équilibre intérieur des sages, celui dont parle Confucius que, comme vous devez le savoir, mon père traduisait lors de son arrestation par les partisans, le 3 mai 1945. Dans sa cellule, en plus du lit, on lui avait concédé une table où il pouvait écrire; on lui donnait les livres qu'il demandait à lire, et il écrivait, il écrivait... Cela faisait huit ans que je ne l'avais pas vu, et j'étais extrêmement troublée. Mais lui, étrangement, par son comportement savait redonner l'espoir, il savait consoler. Il nous invita, assez péremptoirement, à lire l'“Epître au Grand Khan”, de Dante Alighieri, et, avant de le quitter, il m'admonesta en se servant des mots de Brancusi qui, dans ses moments de désespoir, rappelait à ses parents que, certains jours, il n'aurait pour rien au monde donné ne fût-ce que cinq minutes de son temps.

 

Que fîtes-vous dès votre retour en Italie?

 

A l'aide de mon mari et de ma mère, j'étudiai la possibilité de transformer Brunnenburg en un lieu extraterritorial, une espèce de petit Etat, pour garantir à mon père, une fois sorti de l'horreur, toute la tranquillité dont il avait tant besoin.

 

Craigniez-vous que les persécutions auraient continué même après la “Libération”?

 

Je ne vous dis que ceci: aujourd'hui la cellule d'Ezra Pound au Saint-Elisabeths a été complètement rénovée... depuis que l'intérêt pour ses études et pour son œuvre se sont multipliés, cette cellule est devenue un paradis! Peinte en azur, elle est devenue un but de pèlerinage dans un lieu voué à un culte.

 

Quelle aurait été la réaction de Pound?

 

Je pense que rien ne l'aurait moins intéressé: figurez-vous que dès son arrivée ici il ne fit qu'insister fermement pour transformer la maison en un espace assez vaste à la fois pour l'échange d'idées et pour l'Usine.

 

Pour l'Usine?

 

Le Musée Agricole devait devenir le creuset d'où surgiraient simultanément “un morceau de pain et un verre de vin”. Il était hanté par l'idée que tout pouvait lentement tomber en ruine et que les mots, comme les objets, pourraient être oubliés. Pour cette raison la maison prit soudain une grande importance. Elle était pour lui une petite forteresse obstinée et tenace, le témoignage de l'amour pour la terre qu'il partageait avec les Tyroliens et l'endroit idéal de toute expérience, depuis l'amalgame des sons jusqu'à la culture du maïs avec des graines importées des Etats-Unis.

 

Si Pound était un citoyen du monde, vous, qui avez passé toute votre enfance au milieu des pics et des prairies du Haut-Adige, qui avez appris le dialecte de la Val Pusterie avant l'Allemand, l'Anglais et l'Italien, ne vous êtes-vous jamais sentie en conflit avec des cultures si opposées?

 

Allons donc! Grâce à Dieu, j'ai vécu dans une époque pré-freudienne. Le passage d'une langue à l'autre, dans mon cas, a représenté une nécessité et certainement pas un problème de conscience.

 

Le mot “conscience” se rencontre souvent dans l'œuvre de Pound.

 

Il disait toujours qu'il fallait vivre en harmonie avec cet hôte qui ne nous abandonne jamais. Sa conscience l'empêcha toujours de divorcer de sa femme Dorothy qui, telle une bizarre Pénélope le seconda pendant les années où l'Amérique, le marquant du sceau de “traître”, l'enferma à l'asile. C'est dommage que les choses se soient passées ainsi. Je pense que si à la place de Dorothy qui était une créature douce, il y avait eu Olga Rudge, ma mère, avec sa dialectique inflexible, Pound aurait été libéré beaucoup plus tôt.

 

Quand Pound arriva ici, au début des années 60, dans une société complètement différente de celle qu'il avait connu, comment réagit-il?

 

Il se plaignait du manque de relation, de plus en plus évident, entre le langage et la réalité. L'Europe, pour qui il avait combattu en incitant, à travers les micros de la Radio italienne, l'Amérique à ne pas intervenir dans le conflit européen, n'existait plus, au contraire, elle se désagrégeait sous ses yeux. Mais il s'intéressa à la question tyrolienne et puis, sous l'influence de mon mari, il étudia profondément l'esthétique et la civilisation des Pharaons, tant et si bien que dans les Cantos  on retrouva une section égyptienne qui n'y était pas auparavant.

 

Qui, aujourd'hui, poursuit le chemin que Pound a tracé?

 

Parmi les artistes qui étaient ses contemporains, tous ont subi, d'une façon ou d'une autre, son influence: depuis un poète comme Montale jusqu'à un peintre comme Marco Rotelli qui, dans ses tableaux, déclare avoir pris l'inspiration de la lumière qui règne dans les Cantos.  Parmi les autres, je voudrais rappeler en particulier l'Américain Robinson Jeffers, tellement éloigné de Pound mais en même temps si proche. Ce fut le seul poète qui prit position contre l'intervention des Etats-Unis pendant la dernière Guerre Mondiale, et de ce fait il fut censuré et interdit.

 

En changeant de sujet, avez-vous un souhait particulier?

 

Oui. Je souhaite voir représentée Cavalcanti, l'opéra en musique que Pound écrivit en 1932. C'est un vrai chef-d'œuvre. Croyez-moi, les sons ne vous abandonnent jamais.

 

(Entretien paru dans le quotidien Il Giornale de Milan, 1997. Propos recueillis par Enrico GROPPALI).

mardi, 19 mai 2009

Espace et temps chez Ezra Pound

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Archives de "Synergies Européennes" - 1986

Vintilia Horia:

 

Espace et temps chez Ezra Pound

 

Pour avoir défendu une position similaire, pour s'être attaqué à l'usure comme procédé hétérodoxe dans le cadre de l'Eglise de son temps, Dante perdit sa patrie, fut condamné à mort et dut passer le reste de ses jours loin des siens. Au XXème siècle, Ezra Pound subit le même sort…

 

Ce qu'on pourrait appeler "le plan vital" dans la poésie d'Ezra POUND ne peut trouver qu'une seule comparaison, ancienne mais toujours valable: l'œuvre de DANTE. La poésie que ce grand Italien a produite ne se limite pas à La Divine Comédie mais comprend aussi De la Monarchie, œuvre en prose contenant le projet d'une société basée sur l'idée impériale. Cette idée recèle une transcendance que l'homme doit conquérir en subissant les épreuves de l'enfer, épreuves de la connaissance en profondeur; en tant qu'être inférieur, il doit surpasser les purifications du purgatoire afin de trouver, avec l'aide de l'amour, considéré comme possibilité maximale de sagesse, les dernières perfections du Paradis. Dans cette optique, la Vie serait un voyage, comme l'imaginaient les Romantiques ainsi que RILKE et JOYCE. Dans l'œuvre de POUND, ce qui nous rapproche de La Divine Comédie, ce sont les Cantos Pisans. Dans toute la poésie et la prose de POUND, comme dans tous les gestes de son existence, on repérera un souci quasi mondain de la perfection, confinant au métaphysique. L'homme, dans cette perspective, doit se perfectionner, non seulement sur le plan de la transcendance et de l'esprit, mais aussi dans le feu des affrontements momentanés qui composent sa vie de pauvre mortel. La perfection spirituelle dépend de l'héroïcité déployée dans le quotidien. "La lumière plane sur les ténèbres comme le soleil sur l'échine d'une bourrique".

 

Une révolte contre le monde moderne

 

Le pire, chez DANTE, l'ennemi qu'il combattit tout au long de sa vie d'exilé, fut la confusion consciente entre pouvoir temporel et pouvoir spirituel. La tâche du Pape, c'était de s'occuper de la santé et du salut des âmes. L'Empereur, lui, devait s'occuper du monde visible, sans jamais perdre de vue le but ultime. Le Souverain Pontife ne devait s'abstenir de lutter contre les maux du quotidien. L'homme est une combinaison d'antagonismes complémentaires. Sa complexe constitution psychosomatique révèle un désir d'harmonie finale, désir qui s'exprime sans cesse conformément à la "coincidentia opposi- torum". L'affrontement politique, qui caractérisa et marqua l'existence de DANTE, constitue finalement le sceau typique d'un être capable de vivre et d'assumer la même essence, tant dans sa trajectoire vitale que dans son œuvre; la marque de l'affrontement politique confèrera une aura tragique à POUND également. Cette similitude dévoile non seulement une certaine unité de destin commune aux deux poètes mais aussi l'immuabilité de la tragédie humaine, (de l'homme en tant que zoon politikon, NdT), à travers les siècles. Le poète nord-américain ne put échapper au XXème siècle à ce sort qui frappa le Florentin six cents ans plus tôt. On constate une relation perverse avec la politique qui affecte l'homme et  lui est dictée par le droit, ou plutôt le devoir, de se scruter sous l'angle du péché originel. La politique est le terrain où l'homme trouvera, avec le maximum de probabilités, une tribune pour se faire comprendre aisément et rendra ses pensers accessibles aux commentateurs.

 

La révolte de Pound contre le monde moderne est une attitude quasi générique, consubstantielle à sa génération. En effet, c'est cette lost generation nord-américaine qui abandonna sa patrie lorsque le puritanisme céda le pas au pragmatisme, dans un mouvement comparable à la révolte de KAFKA contre la technique considérée comme inhumaine. Mais ce n'est pas la technique qui définit le désastre. HEIDEGGER a consacré un essai entier à ce problème crucial et nous savons désormais combien les machines et leur développement peuvent être nocives et ceci seulement par le fait qu'il y a malignité chez ceux qui les manipulent. Le problème nous apparaît dès lors beaucoup plus profond. Il s'agit de l'homme lui-même et non des œuvres qu'il produit. Il s'agit de la cause, non de l'effet. Déjà les romanciers catholiques français de la fin du XIXème, tout comme le Russe DOSTOIEVSKI, avaient souligné ce fait. C'est le manque de foi, la perte du sens religieux qui octroye à l'homme des pouvoirs terrestres illimités.

 

Le problème n'est donc pas physique mais métaphysique. POUND n'est certes pas un poète catholique. C'est un homme soulevé par une religiosité profonde qui se situe dans une forme d'ésotérisme compris comme technique de la connaissance. Ce qui lui permet d'utiliser les mêmes sources et de chercher les mêmes fins que BERNANOS ou CLAUDEL. Il n'est donc pas difficile de rencontrer des points communs   -et d'impétueux déchaînements au départ d'une même exégèse-  entre POUND et l'auteur du Journal d'un curé de campagne, qui lança de terribles attaques contre notre monde actuel après la seconde guerre mondiale.

 

Le Mal, c'est l'usure

 

En conséquence, nous pouvons affirmer que, de son premier à son dernier bilan, POUND sait où se trouve le mal. Il le définit par le terme usure, tout en se proclamant combattant contre tout système voué à l'utiliser sous les formes de l'exploitation, de l'oppression ou de la dénaturation de l'être humain et contre toute Weltanschauung  ne se basant pas sur le spirituel. C'est là que les attaques de POUND contre l'usure, présentes dans les Cantos, trouvent leurs origines, ainsi que ses critiques d'un capitalisme exclusivement basé sur ce type d'exploitation et son désir de s'allier à une régime politique ressemblant à l'Empire défendu et illustré par DANTE.

 

Ses émissions de Radio-Rome dirigées contre ROOSEVELT durant les dernières années de la guerre sont, dans ce sens, à mettre en parallèle avec les meilleurs passages des Cantos. Pour avoir défendu une position similaire, pour s'être attaqué à l'usure comme procédé hétérodoxe dans le cadre de l'Eglise de son temps, DANTE perdit sa patrie, fut condamné à mort et dut passer le reste de ses jours loin des siens. Ezra POUND subit le même sort. Lorsque les troupes nord-américaines submergèrent l'Italie, POUND fut arrêté, moisit plusieurs mois en prison et, pour avoir manifesté son désaccord avec un régime d'usure, un tribunal le fit interner dans un asile d'aliénés mentaux. Son anti-conformisme fut taxé d'aliénation mentale. Cette leçon de cynisme brutal, d'autres défenseurs d'un régime d'usure, je veux dire de l'autre face de l'usure, celle de l'exploitation de l'homme en masse, l'apprendront. Cette usure-là engendre les mêmes résultats, en plus spectaculaire peut-être puisque le goulag concentre davantage d'anti-conformistes déclarés tels et condamnés en conséquence.

 

"L'usure tue l'enfant dans les entrailles de sa mère" déclare un des vers de la célèbre finale du Cantos XV. Cet enfant pourrait bien être le XXIème siècle, celui que POUND prépara avec tant de passion, avec un soin quasi paternel. Ce siècle à venir est déjà menacé de tous les vices prévus par le poète, contrairement à sa volonté et à ses jugements empreints de sagesse.

 

Vintilia HORIA.

 

(traduit de l'espagnol par Rogelio PETE, décembre 1985).

 

vendredi, 03 avril 2009

Edgar Poe, une modernité de droite

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Edgar Poe, une modernité de droite

Nicolas Bonnal : Ex: http://www.philipperanda.com/

Nous fêtons le bicentenaire de la naissance d’Edgar Poe, venu au monde lorsque la littérature nord-américaine regorgeait de talents comme Hawthorne, Whitman ou Melville, au point que Borges parlait d’une concentration astronomique pour expliquer une telle densité de génies. Mais à l’époque la France ou la Russie en regorgeait aussi, de génies.
Écartons tout d’abord la polémique très médiocre qui a fait de Poe un écrivain ignoré dans son pays et reconnu en France. Il était connu dans son pays, et il a été l’inspirateur de la poésie moderne française. Sans lui, nous n’aurions eu ni Baudelaire, ni Mallarmé, ni le culte des poètes maudits. Et contrairement à ce que dit la critique, Poe n’a pas été trahi en France.
Bien des traits d’Edgar Poe demeurent essentiels à nos yeux.
Tout d’abord son rejet de la démocratie et du règne de la « canaille », comme il disait. Poe un farouche sudiste, un patricien d’adoption attaché à sa vieille Angleterre et à sa classe aristocratique. Ce snobisme littéraire va retentir dans toute la littérature française des deux siècles suivants…
Ce faisant Poe invente un littéraire dandy, décalé, d’ailleurs alcoolique et mauvais garçon. Il est un « Bohemian Tory », un artiste et un homme inadapté à la vie moderne. Il se projette dans des mondes aristocratiques comme celui d’Ellison ou de la maison Usher et ces mondes aristocratiques, médiévaux et gothiques sont condamnés. Neruda n’avait pas voulu survivre à la dictature de Pinochet, l’écrivain gothique ne veut pas survivre à la démocratie matérialiste et vulgaire. Cela peut conduire à une surdimension de l’ego, à une fatuité provocatrice caractéristiques des artistes modernes. Mais Poe, Nerval ou Baudelaire ont bien souffert.
Dans le même temps, en bon américain, Poe était un professionnel, un journaliste. Il a joué des scoops, des canulars, de sa traversée de l’Atlantique en trois jours (en ballon) et il s’intéressait à tous les sujets modernes : les placements financiers, les découvertes scientifiques, le sport (comme Lord Byron, il était excellent nageur), tout ce qui était susceptible d’intéresser son lectorat. Il redevenait vite plébéien lorsqu’il s’agissait de gagner sa vie…
Valéry avait été fasciné par la présentation du Corbeau, où certains, toujours plus malins, voient encore un canular, tout comme ils voient du racisme dans le voyage initiatique d’Arthur Gordon Pym. Mais Poe impose ici une vision neuve de la poésie, éloignée de l’histrionisme et de l’inspiration. La poésie est affaire de travail et de technicité, comme les contes policiers. Poe impose une figure du travailleur, je dirais même de l’entrepreneur intellectuel, véritable professionnel consacré au travail du vers et du conte.
Dans le même temps qu’il révolutionne la forme, Poe révolutionne le fond. Il n’est évidemment pas le seul, s’il est l’un des plus importants à se passionner pour le fantastique, le macabre, l’étrange, la fantaisie et même l’ésotérisme pur et dur. Son immense culture et sa formation cosmopolite et européenne lui ont ouvert des horizons que son talent sophistiqué a pu ciselé à souhait. Poe est le grand-père de Tim Burton de ce point de vue et de tout le cinéma fantastique moderne.
Son goût très anglo-saxon pour les énigmes, les situations et les scénarii compliqués : Poe invente avec son très chic détective français Dupin le roman policier, dont les origines théologiques sont également évidentes. Mais, en même temps, il déploie des trésors d’ingéniosité scientifiques et expérimentales qui en font un écrivain encore plus complet que son parèdre Chesterton. Sa francophilie, caractérisitique des élites americaines, est encore à souligner.
Je terminerai cet hommage par un rappel de la face d’ombre de notre aristocrate libertaire : Poe était un alcoolique, un joueur, un drogué, un homme obsédé par les jeunes innocentes (qui n’étaient d’ailleurs pas plus jeunes que la Juliette de Shakespeare). Poe joue au vicieux, il est désespéré, torturé, ambitieux dans le mal, dépravé, découragé. En ce sens aussi il est prophète ébouissant de nos Temps de la Fin, caractérisés par une frénésie nihiliste.

samedi, 21 mars 2009

Ezra Pound a Milano

«EZRA POUND  A MILANO»


Luca Gallesi, Introduzione a Ezra Pound e il turismo colto a Milano - Ex: http://www.ares.mi.it/

Una delle caratteristiche della biografia di Ezra Pound che più colpisce il lettore europeo è la sua irrequietezza tipicamente nordamericana. Nato nel 1885 a Hailey, nell’Idaho, a soli 18 mesi Pound lascia il Far West per iniziare una interminabile serie di trasferimenti che presto lo portano ad attraversare prima gli Stati Uniti poi l’Oceano Atlantico, per approdare definitivamente nel Vecchio Continente nel 1908.
 In Europa Pound vive anni molto intensi, prima  a Londra e poi a Parigi ma non è soddisfatto e decide di trasferirsi nel nostro Paese, a Rapallo, dove soggiorna dal 1925 al 1945.
  Accusato in patria di tradimento, alla fine della guerra viene fatto prigioniero dalle truppe statunitensi e torna nel Nuovo Mondo, per la prima volta in aeroplano. Giudicato mentalmente inadatto a sostenere un processo, viene internato nel manicomio criminale del Saint Elizabeths’ Hospital di Washington fino al 1958. Terminata la lunga e ingiusta  detenzione, il Poeta torna in Italia, e si stabilisce per tre anni in Alto Adige, dalla figlia Mary, prima di riprendere a vivere tra Rapallo e Venezia. Qui muore nel 1972 e da allora le sue spoglie riposano nel Cimitero di San Michele.
 
I rapporti tra l’Autore dei Cantos e il nostro Paese sono stati spesso oggetto di studio, a partire dall’ormai classico L’Italia di Ezra Pound  di Niccolò Zapponi, sino ai numerosi studi dedicati a città italiane predilette dal Poeta quali Verona, Ravenna e Venezia, che sono state anche recentemente sedi di importanti convegni dedicati a Ezra Pound.
 Si è scritto anche dei rapporti di Pound con Siena e con Pisa, nelle cui campagne si trovava il Disciplinary Traninig Center dell’esercito statunitense, divenuto tristemente famoso per la “gabbia del gorilla” dove Ezra Pound viene rinchiuso alla fine della guerra, e dove scrive la splendida poesia dei Canti Pisani.
Anche della breve permanenza di Pound in Sicilia è disponibile una curiosa testimonianza, contenuta nelle recentemente pubblicate Lettere dalla Sicilia così come molto sappiamo delle numerose visite di Pound nella Capitale, nelle vesti di commentatore radiofonico per Radio Roma. 
 

Nel meritatamente celebre Discrezioni, infine, Mary de Rachewiltz ci porta testimonianza delle frequenti visite del padre in Alto Adige, dove lei viene cresciuta per volontà paterna e dove ancora oggi vive con la propria famiglia in un ospitale castello sede di numerose iniziative poundiane.
 Di Pound a Milano, invece, nessuno aveva finora ritenuto opportuno occuparsi. Città gelosa dei propri tesori e avara nel mostrarli, Milano ha infatti frequentemente evitato di celebrare i propri ospiti illustri, anche se sono numerosi e importanti i “turisti colti” che qui vennero a soggiornare per motivi di studio o di lavoro, passando, come Pound, quasi inosservati.
 Eppure Milano è tutt’altro che irrilevante per la biografia del Poeta: sui preziosi manoscritti custoditi alla Biblioteca Ambrosiana, infatti, Pound viene a studiare per il suo Cavalcanti; qui è invitato dal Rettore della prestigiosa Università Bocconi a tenere un ciclo di lezioni  di storia dell’economia  e infine a Milano risiedono i suoi storici editori italiani, prima Giovanni e poi Vanni Scheiwiller, che gli sono vicini e complici nell’applicare sul campo i principi poundiani di quella “nuova economia editoriale” più attenta alla qualità dei prodotti che ai margini di profitto.
Oltre alle circostanze appena ricordate, Pound ha a che fare in altre occasioni con la città di Milano, come vedremo dagli scritti raccolti in questo volume: dalla vorticosa amicizia con Martinetti, che del capoluogo lombardo fa la capitale delle avanguardie artistiche d’inizio secolo allo storico discorso milanese di Benito Mussolini del 6 ottobre 1934, che Pound propone con martellante insistenza all’attenzione dei suoi numerosi amici e corrispondenti di quegli anni; dalla collaborazione con i giornali e con l’emittente della Repubblica Sociale Italiana al tragico e vergognoso scempio di Piazzale Loreto, drammatica icona posta dal Poeta all’inizio dei Canti Pisani, che peserà come un macigno nell’animo di Pound, da allora mai più riconciliato con Milano, dove non tornerà più volentieri, come ricorda Mary de Rachewiltz nel suo intervento.
 Gli scritti dedicati a Ezra Pound e il turismo colto a Milano vogliono dunque essere un piccolo ma significativo tentativo di riconciliazione tra Pound e il capoluogo lombardo, attraverso il lavoro scientifico e originale degli studiosi chiamati a discutere i vari aspetti delle esperienze milanesi del Poeta, che qui vengono per la prima volta riassunte e approfondite.
 Giano Accame e Cesare Cavalleri ricostruiscono le vicende e l’atmosfera culturale della Milano degli anni Trenta, in cui Pound viene a tenere le lezioni d’economia all’Università Bocconi, mentre Alessandro Zaccuri  ripercorre, servendosi di “coincidenze significative” i complicati intrecci di editori, amici e poeti che qui si sono incontrati; Carlo Fabrizio Carli ha esaurientemente tracciato il quadro dei rapporti di Pound con le avanguaride artistiche del primo Novecento, mentre due studiosi nordamericani, Tim Redman e Leon Surette, analizzano gli spinosi rapporti tra Pound e il fascismo.
 Il quadro complessivo tracciato da queste relazioni offre sicuramente interessanti spunti di riflessione tanto sulle insospettate risorse culturali di una città come Milano quanto sulla confermata poliedricità di Pound artista, economista dilettante e sommo poeta.

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Luca Gallesi

 

jeudi, 19 mars 2009

Patriotic Anarch? 100 Years of Robert A. Heinlein

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Patriotic Anarch? 100 Years of Robert A. Heinlein

by Flavio Goncalves

Ex: http://www.rosenoire.org/

THE first book I read that was authored by Robert A. Heinlein was “Stranger in a Strange Land”. I borrowed it from my younger brother and it was a cheap paperback edition with a very beautiful cover. I still keep it in my library at my family home in the Azores. “Stranger in a Strange Land” was considered very progressive in Heinlein’s day, dealing with the sexual revolution when that sort of thing was still considered as counter-culture and giving Heinlein himself some sort of guru status. Even though the book was first published in 1961, that edition was censored and the readers only got a chance to read the book in its entirety in 1991. Some claims have been made that this was the book that inspired the Manson Cult, even though Charles Manson himself publicly stated that he didn’t ever even read the book and had no responsibility regarding what his followers read.

Born July 7, 1907, Heinlein began his political trail as a regular left-winger but somehow along the trail that changed and when he died he was viewed as some sort of right-wing anarchist. I can’t really tell you what happened, but his “Starship Troopers” novel did sound a bit anti-communist to me and it was published earlier than “Stranger in a Strange Land”. But since anti-communism cannot be considered as something which is reviled by right-wingers alone, after all, regular anarchists are also anti-communist as part of their anti-authoritarian agenda (say what you like, proletariat dictatorship is still a dictatorship) and that goes as far back as the First International, when Mikhail Bakunin clashed with Karl Marx. So, many left-wingers (I would dare say most) are anti-communist and that’s nothing new.

I’ll avoid all the fuss about whether “Starship Troopers” was an ode to militarism or some sort of patriotic fascist order and place it, instead, side by side with “Nineteen Eighty-Four”, “The Iron Heel” and “Brave New World”. It depicts a future under an authoritarian form of government and that is that! Let me borrow a quote from Wikipedia: “The overall theme of the book is that social responsibility requires individual sacrifice. Heinlein's Terran Federation is a limited democracy with aspects of a meritocracy based on willingness to sacrifice in the common interest. Suffrage belongs only to those willing to serve their society by two years of volunteer Federal Service (there is no draft)” Well, that sounds good to me and remains one of my own views on Socialism. The common interest of the people should be more important than the interest of individuals and this would improve our modern society, even though I also believe that we need a more significant change.

Returning to Heinlein, as was common practice among militaristic science fiction writers, once upon a time he had been a soldier and served in the United States Navy during World War Two, but due to health reasons he never had a chance to fight. He remained in the States, in the background, during the war. He and his wife, during the Cold War, founded the Patrick Henry League when the National Committee for a Sane Nuclear Policy, in 1958, tried to unilaterally stop all nuclear weapons testing in the USA despite the fact that the Soviet Union could keep on testing theirs… which sounds like the act of a patriot. To this day “Starship Troopers” remains a part of the reading list in four of the five existing American military academies (covering the Army, the Marines and the Navy).

So, what was he? He has been labeled a fascist, a nazi, a racist and at the same time promoted homophobia and sexual liberation. And if in “Starship Troopers” we see him picturing good government as big government, on the other hand we find him fighting central government in “The Moon is a Harsh Mistress” while promoting small communities as models of individual freedom (as any good anarchist should). and what can one say about his “Take Back Your Government!: A Practical Handbook for the Private Citizen Who Wants Democracy to Work”?

All of his earlier writings and even his Socialist political activism will show him as an anarchist, but due to the peculiarities of the Cold War he also embraced patriotism. His country was at war with a federation of foreign countries and it seemed natural to him to stand up for his fellow countrymen, but let us not forget that his position regarding homosexuality, sexual liberation, his criticism of organised religion and his more private issues (he remained a naturist all of his life) can hardly be interpreted as right-wing. His writing was revolutionary, his positions were those of a traditional anarchist, but when need be he also was a patriot and criticised Soviet Communism, which should not be mistaken with Socialism.

His books remain as exciting today as they were almost half a century ago and important lessons can be derived from all of them, as well as great entertainment. He did won four Hugo awards, after all, so let us hope that this revolutionary writer and thinker will not be forgotten so soon.

Ho Articl Essay Interview Poetr Miscellan Review Book Archive Link

Ezra Pound, lo scandalo libertario

Ezra Pound, lo scandalo libertario

 
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"Beauty is difficult", scriveva Ezra Pound: la bellezza è difficile. E senz' altro è difficile capire come uno dei geni poetici del Novecento volesse conciliare Benito Mussolini e Thomas Jefferson, la libertà e la scelta per la Repubblica sociale. A sciogliere queste contraddizioni in un «elogio libertario di Ezra Pound» ci ha provato la settimana scorsa sul Corriere della Sera il filosofo Giulio Giorello in un articolo dedicato a un saggio di Pound tradotto da Andrea Colombo per la prima volta in italiano, Il carteggio Jefferson-Adams come tempio e monumento (Edizioni Ares, introduzione di Luca Gallesi).

«Beauty is difficult»,


L' intervento di Giorello non è passato inosservato. Non ci riferiamo tanto al commento entusiastico di Luciano Lanna sulla prima pagina del Secolo d' Italia, «Pound (come Jünger) era un libertario», quanto all' attenzione che ad esso ha dedicato Giano Accame, ex direttore del Secolo d' Italia, ma soprattutto uno dei maggiori esperti italiani del pensiero politico di Pound. «Negli anni Novanta avevo pubblicato per Settimo Sigillo il saggio Pound economista. Contro l' usura - ci dice Accame -. Un lavoro cui mi dedicai quando Pound, soprattutto per i lavori poetici, era stato ampiamente rivalutato dalla critica di sinistra, a cominciare dai fondamentali saggi del professor Massimo Bacigalupo, che collaborava al manifesto e, detto per inciso, era figlio del medico italiano dell' autore dei Cantos. Mi sembra che l' intervento di Giorello possa rappresentare l' inizio della rivalutazione non soltanto poetica, ma del pensiero complessivo di Pound, anche alla luce della crisi finanziaria internazionale».


Che cosa c' entra, si potrebbe obiettare, il crollo dei mercati finanziari, evocato peraltro anche da Giorello, con il poeta americano che aveva scelto di vivere in Italia? «Pound - spiega Accame - si reputava un patriota, legato ai valori della Costituzione, che affidava al Congresso di Washington la custodia della moneta. Egli considerava un' abiura della sovranità popolare l' aver delegato la gestione della moneta e della finanza alla Banca centrale, un ente i cui responsabili non rispondono delle proprie azioni al popolo. Da questa concezione derivava la proposta ingenua di una moneta deperibile... Al di là degli aspetti utopistici e sconclusionati del suo pensiero economico, restano oggi, in questa situazione, i moniti profetici. Pound considerava i poeti come le antenne di un popolo».
Pensiero economico a parte, definire «libertario» uno scrittore che si schierò pubblicamente per la Repubblica sociale italiana può essere visto da alcuni intellettuali di sinistra come un' impostura. «Non è affatto un' impostura - risponde Accame - perché il sogno finale di tutti i grandi intellettuali fascisti, da Giovanni Gentile all' eretico Berto Ricci e all' artista Mario Sironi, era realizzare la grandezza italiana nella libertà. Il fatto poi che Pound fosse vicino al fascismo in declino rispondeva un po' alla natura dei pionieri americani, gente costretta a fuggire perché negletta nella propria terra».


Internato in un campo di concentramento vicino a Pisa, dove scrisse i Canti pisani, da alcuni considerato il meglio della sua produzione, Pound passò poi dodici anni in un manicomio criminale a Washington, ma l' America non ebbe mai il coraggio di condannare per tradimento uno dei suoi geni. Nessuno può negare la tensione libertaria di testi composti in un campo di prigionia. Tuttavia, osserva Luigi Sampietro, docente di letteratura angloamericana all' Università Statale di Milano e frequentatore tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta di casa Pound a Brunnenburg, vicino a Merano, «non si deve confondere tensione democratica, certamente presente in Pound, e liberalismo, che è l' espressione culturale del mercato. In fondo Adams e Jefferson condussero una guerra economica, per la liberalizzazione del mercato, diedero l' indipendenza alla propria terra perché non volevano pagare tasse. Ezra Pound, invece, con la sua ossessione contro l' usura, da cui derivava il suo antiebraismo, e l' invenzione di una moneta deperibile basata sul valore accumulato con il lavoro, contrapposto al denaro neutro valido per tutti, si ispirava in fondo a principi antiliberali. Chi potrebbe realizzare, se non una dittatura con un' economia dirigista, la carta-lavoro ipotizzata dall' autore dei Cantos?».
D' accordo con «l' elogio libertario» scritto da Giulio Giorello è lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, autore di Cabaret Voltaire (Bompiani). Tuttavia, dice Buttafuoco, il contesto politico-culturale del nostro Paese ci costringe sempre «alla scoperta dell' acqua calda. Sì, ha capito bene: scoperta dell' acqua calda. Perché fin quando non ci libereremo dell' incubo antifascista, non ci potremo accostare con serenità al grande patrimonio culturale del Novecento. E non solo, perché ricordo che in Italia la cultura marxista più retriva ha messo in dubbio persino i filosofi presocratici, considerandoli antesignani del pensiero negativo. Come per Pound, oggi assistiamo alla rivalutazione del Futurismo, dopo che per anni ci hanno annoiato con le scoperte della transavanguardia. Ci rendiamo conto soltanto adesso che il Futurismo è stato il maggiore movimento culturale italiano assieme al Rinascimento? Certo, ebbe anche una valenza politica».

mardi, 17 mars 2009

Tra prosodia e immagine : Ezra Pound

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Tra prosodia e immagine: Ezra Pound

 

 

di Nicola D’Ugo

Ex: http://www.controluce.it/

In questo secolo la poesia, spronata dai grandi maestri dell’Ottocento, a partire dai simbolisti francesi, ha dato luogo alle più diverse manifestazioni espressive. Al di là dei responsi dei vari periodi circa le influenze sull’arte e sulla letteratura esercitate da un singolo autore –si pensi alla tardissima riesumazione dell’opera della poeta americana Emily Dickinson– è opportuno segnalare una tendenza fortemente motoria della poesia, ottenuta con mezzi prevalentemente a base fonica, e una statica, ottenuta anzitutto tramite immagini. Se i calligrammi, le parole in libertà e la poesia concreta in genere hanno portato a un incontro più deciso di immagine iconica, suono e concetto, la letteratura in versi che si è avvalsa solo del mezzo linguistico –che è poi la più considerevole– si è diversificata puntando o sulle modalità prosodiche o sulle modalità di rimando iconico. Motoria è da dirsi la scrittura timbrica o ritmica, fortemente improntata su occorrenze e ricorrenze temporalmente esibite, una scrittura già tradizionale ma che l’introduzione del verse libre ha fortemente riformato. Attenta a quest’aspetto, ma decisamente formata sull’altro versante, la poetica dell’immagine, o Imagismo, seppure abbia avuto esiti che si allontanarono molto dal loro intento iniziale, ci offre un limpido spaccato dell’attività poetica del Novecento riguardo ai propri propositi. L’incontro di un iniziatore del movimento come Ezra Pound con la poesia cinese, di cui ci restano le splendide e libere traduzioni di Cathay, si incrociava se non altro con il Medioevo nostrano, di cui Pound era un appassionato conoscitore. Rileggere oggi Cathay ci permette intanto di avvicinarci a una mentalità della scrittura poetica non esclusivamente occidentale, ma che già nell’Occidente medievale dello Stilnovo trovava una formulazione risolutamente caratterizzata. I rischi dell’importazione sono molteplici. Più di recente, in una nuova ondata d’interesse per l’Estremo Oriente, il semiologo francese Roland Barthes ci ha illustrato un modo di porsi negli interstizi fra Oriente e Occidente, non tanto cercando di «scoprire» l’Oriente, con l’incombente rischio di travisarlo e deformarlo attraverso la patina dell’occhio occidentale, quanto piuttosto «inventandoselo» per scoprire meglio se stesso e i suoi «simili» occidentali, il nostro modo di pensare (che ci pare sempre l’unico adeguato, finché l’apparenza non ci induca a credere che il diverso funziona meglio del consueto), la nostra alterità.

Nello Stilnovo, il cui interesse per l’immagine è fortissimo, le cose inanimate sanno acquisire un valore anche spirituale e morale, allegorico e anagogico, di modo che le finalità della loro presenza sulla pagina sono tutte regolate da una logica squisitamente occidentale, ovvero una logica di nessi riconducibili a principi, una logica di gerarchie che, se non sono date, possono essere ricostruite secondo un processo analitico e associativo. Il rapporto con la natura, considerato fondamentale per la ricognizione cosmologica e per la comprensione dell’uomo quale creatura privilegiata, viene ricondotto, anche nelle sue manifestazioni meno evidentemente cerebrali, a una concezione filosofica più o meno individuale del singolo autore: la poesia, per metafisica che possa apparire, si fonda, per lo stilnovista, su principi fisici e culturali.
Il celebre distico imagista di Ezra Pound «In a Station of the Metro» («In una stazione del métro») consiste di due soli versi in cui è posto un nesso analogico:

«The apparition of these faces in the crowd;
Petals on a wet, black bough.»

(«L’apparizione di questi volti nella folla;
Petali su un umido, nero ramo.»)

In questo tipo di componimento non si utilizza l’immagine con l’intento di evocarne una privilegiata e intraducibile in un referente esterno, ma per rimandarci a un dato sensoriale che ha connotazioni di carattere emozionale; l’immagine è di un’estetica trascendentale proposta attraverso un’espressione linguistica, non già fondata su un’estetica esclusivamente linguistica. A differenza dei componimenti simbolisti, il testo è una mediazione fra esperienza e interiorità, ci offre un referente, non il libero gioco dell’immaginazione a partire da significati e suoni, e il suo fine non è suggerire qualcosa oltre l’apparenza, ma rendere il lettore partecipe dell’apparenza in tutta la sua pienezza. È impressionistico, e fine della poetica imagista la rappresentabilità. L’apparire non contiene in sé, aprioristicamente, valenze di simulazione e dissimulazione, è invece e anzitutto direzionato verso un valore di verità (anche emozionale) che trapela dalla scrittura.

Nonostante i limiti di questa poetica di gruppo –del resto straordinariamente superati da un iniziatore del calibro di Pound negli anni successivi– un grande bardo del Novecento come W. B. Yeats volle ammettere di aver appreso molto dal giovane poeta americano. Nelle Autobiografie ci ricorda l’episodio in cui un giorno Pound gli parlò di questa poetica delle parole concrete in luogo di quelle astratte, e Yeats, già celebre e d’età più matura del poeta americano, gli diede un suo componimento invitandolo a indicargli le parole astratte che aveva utilizzato. Pound prese lo scritto e se lo portò via, per poi tornare poco dopo. Il componimento era quasi tutto sottolineato. Da quella volta Yeats prestò attenzione all’insegnamento del suo geniale segretario.

Qualunque poeta dovrebbe aver presente la qualità e l’efficacia delle parole astratte che pone in un suo scritto. Poeti successivi a Pound, come T. S. Eliot, W. B. Yeats e Dylan Thomas (e Pound stesso nei Cantos), fecero largo uso dei termini astratti, con finalità anche molto diverse, ma seppero dar maggior vigoria alla scrittura nei componimenti in cui l’astrazione è ridotta all’osso. Pound si avvalse di questa distinzione come regola prima, segnalando che se la Comedia di Dante era un capolavoro dell’uso poetico dell’immagine, Il Paradiso perduto di Milton, essendo privo di immagini altrettanto concrete, appariva come un «sacco vuoto».

jeudi, 25 décembre 2008

Espace et temps chez Ezra Pound

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Archives de SYNERGIES EUROPÉENNES - VOULOIR (Bruxelles) - Janvier 1986

Vintilia HORIA:

Espace et temps chez Ezra Pound

Pour avoir défendu une position similaire, pour s'être attaqué à l'usure comme procédé hétérodoxe dans le cadre de l'Eglise de son temps, Dante perdit sa patrie, fut condamné à mort et dut passer le reste de ses jours loin des siens. Au XXème siècle, Ezra Pound subit le même sort…

Ce qu'on pourrait appeler "le plan vital" dans la poésie d'Ezra POUND ne peut trouver qu'une seule comparaison, ancienne mais toujours valable: l'œuvre de DANTE. La poésie que ce grand Italien a produite ne se limite pas à La Divine Comédie mais comprend aussi De la Monarchie, œuvre en prose contenant le projet d'une société basée sur l'idée impériale. Cette idée recèle une transcendance que l'homme doit conquérir en subissant les épreuves de l'enfer, épreuves de la connaissance en profondeur; en tant qu'être inférieur, il doit surpasser les purifications du purgatoire afin de trouver, avec l'aide de l'amour, considéré comme possibilité maximale de sagesse, les dernières perfections du Paradis. Dans cette optique, la Vie serait un voyage, comme l'imaginaient les Romantiques ainsi que RILKE et JOYCE. Dans l'œuvre de POUND, ce qui nous rapproche de La Divine Comédie, ce sont les Cantos Pisans. Dans toute la poésie et la prose de POUND, comme dans tous les gestes de son existence, on repérera un souci quasi mondain de la perfection, confinant au métaphysique. L'homme, dans cette perspective, doit se perfectionner, non seulement sur le plan de la transcendance et de l'esprit, mais aussi dans le feu des affrontements momentanés qui composent sa vie de pauvre mortel. La perfection spirituelle dépend de l'héroïcité déployée dans le quotidien. "La lumière plane sur les ténèbres comme le soleil sur l'échine d'une bourrique".

Une révolte contre le monde moderne

Le pire, chez DANTE, l'ennemi qu'il combattit tout au long de sa vie d'exilé, fut la confusion consciente entre pouvoir temporel et pouvoir spirituel. La tâche du Pape, c'était de s'occuper de la santé et du salut des âmes. L'Empereur, lui, devait s'occuper du monde visible, sans jamais perdre de vue le but ultime. Le Souverain Pontife ne devait s'abstenir de lutter contre les maux du quotidien. L'homme est une combinaison d'antagonismes complémentaires. Sa complexe constitution psychosomatique révèle un désir d'harmonie finale, désir qui s'exprime sans cesse conformément à la "coincidentia opposi- torum". L'affrontement politique, qui caractérisa et marqua l'existence de DANTE, constitue finalement le sceau typique d'un être capable de vivre et d'assumer la même essence, tant dans sa trajectoire vitale que dans son œuvre; la marque de l'affrontement politique confèrera une aura tragique à POUND également. Cette similitude dévoile non seulement une certaine unité de destin commune aux deux poètes mais aussi l'immuabilité de la tragédie humaine, (de l'homme en tant que zoon politikon, NdT), à travers les siècles. Le poète nord-américain ne put échapper au XXème siècle à ce sort qui frappa le Florentin six cents ans plus tôt. On constate une relation perverse avec la politique qui affecte l'homme et  lui est dictée par le droit, ou plutôt le devoir, de se scruter sous l'angle du péché originel. La politique est le terrain où l'homme trouvera, avec le maximum de probabilités, une tribune pour se faire comprendre aisément et rendra ses pensers accessibles aux commentateurs.

La révolte de Pound contre le monde moderne est une attitude quasi générique, consubstantielle à sa génération. En effet, c'est cette lost generation nord-américaine qui abandonna sa patrie lorsque le puritanisme céda le pas au pragmatisme, dans un mouvement comparable à la révolte de KAFKA contre la technique considérée comme inhumaine. Mais ce n'est pas la technique qui définit le désastre. HEIDEGGER a consacré un essai entier à ce problème crucial et nous savons désormais combien les machines et leur développement peuvent être nocives et ceci seulement par le fait qu'il y a malignité chez ceux qui les manipulent. Le problème nous apparaît dès lors beaucoup plus profond. Il s'agit de l'homme lui-même et non des œuvres qu'il produit. Il s'agit de la cause, non de l'effet. Déjà les romanciers catholiques français de la fin du XIXème, tout comme le Russe DOSTOIEVSKI, avaient souligné ce fait. C'est le manque de foi, la perte du sens religieux qui octroye à l'homme des pouvoirs terrestres illimités.

Le problème n'est donc pas physique mais métaphysique. POUND n'est certes pas un poète catholique. C'est un homme soulevé par une religiosité profonde qui se situe dans une forme d'ésotérisme compris comme technique de la connaissance. Ce qui lui permet d'utiliser les mêmes sources et de chercher les mêmes fins que BERNANOS ou CLAUDEL. Il n'est donc pas difficile de rencontrer des points communs   -et d'impétueux déchaînements au départ d'une même exégèse-  entre POUND et l'auteur du Journal d'un curé de campagne, qui lança de terribles attaques contre notre monde actuel après la seconde guerre mondiale.

Le Mal, c'est l'usure

En conséquence, nous pouvons affirmer que, de son premier à son dernier bilan, POUND sait où se trouve le mal. Il le définit par le terme usure, tout en se proclamant combattant contre tout système voué à l'utiliser sous les formes de l'exploitation, de l'oppression ou de la dénaturation de l'être humain et contre toute Weltanschauung  ne se basant pas sur le spirituel. C'est là que les attaques de POUND contre l'usure, présentes dans les Cantos, trouvent leurs origines, ainsi que ses critiques d'un capitalisme exclusivement basé sur ce type d'exploitation et son désir de s'allier à une régime politique ressemblant à l'Empire défendu et illustré par DANTE.

Ses émissions de Radio-Rome dirigées contre ROOSEVELT durant les dernières années de la guerre sont, dans ce sens, à mettre en parallèle avec les meilleurs passages des Cantos. Pour avoir défendu une position similaire, pour s'être attaqué à l'usure comme procédé hétérodoxe dans le cadre de l'Eglise de son temps, DANTE perdit sa patrie, fut condamné à mort et dut passer le reste de ses jours loin des siens. Ezra POUND subit le même sort. Lorsque les troupes nord-américaines submergèrent l'Italie, POUND fut arrêté, moisit plusieurs mois en prison et, pour avoir manifesté son désaccord avec un régime d'usure, un tribunal le fit interner dans un asile d'aliénés mentaux. Son anti-conformisme fut taxé d'aliénation mentale. Cette leçon de cynisme brutal, d'autres défenseurs d'un régime d'usure, je veux dire de l'autre face de l'usure, celle de l'exploitation de l'homme en masse, l'apprendront. Cette usure-là engendre les mêmes résultats, en plus spectaculaire peut-être puisque le goulag concentre davantage d'anti-conformistes déclarés tels et condamnés en conséquence.

"L'usure tue l'enfant dans les entrailles de sa mère" déclare un des vers de la célèbre finale du Cantos XV. Cet enfant pourrait bien être le XXIème siècle, celui que POUND prépara avec tant de passion, avec un soin quasi paternel. Ce siècle à venir est déjà menacé de tous les vices prévus par le poète, contrairement à sa volonté et à ses jugements empreints de sagesse.

Vintilia HORIA.

(traduit de l'espagnol par Rogelio PETE, décembre 1985).

 

vendredi, 19 décembre 2008

Leben aus den Wurzeln

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Leben aus den Wurzeln - Ein Aussteigerbuch aus dem neunzehnten Jahrhundert wurde neu aufgelegt

Die Zivilisationskritik erscheint auch heute nicht unzeitgemäß

von Martin Lohmann (http://konservativ.de )

 

Am 4. Juli 1845, dem amerikanischen Unabhängigkeitstag, zog sich der amerikanische Schriftsteller Henry David Thoreau (1817–1862) für zwei Jahre in eine selbstgezimmerte Hütte am Walden-See bei der Ortschaft Concord zurück. Umgeben von der Einsamkeit der Wälder Massachusetts’ versuchte Thoreau in einem radikalen Selbstexperiment herauszufinden, was die wahren Grundbedürfnisse des Menschen sind. Spartanisch ausgestattet lebte er in Askese und kontemplativer Einkehr ein „Leben aus den Wurzeln“ im Einklang mit der Natur, der er nur das allernötigste abrang. Seine Einsichten und Reflexionen fanden ihren Niederschlag in dem Erfahrungsbericht „Walden oder Leben in den Wäldern“, das zu den bedeutendsten Klassikern der amerikanischen Literatur zählt. Seine in Symbolik übersetzten Naturbeobachtungen wie die vom See als „das Auge der Erde“ gelten als meisterhafte Darstellungen der Naturdichtung.

Oft wird Thoreaus Werk auf das Niveau von Naturprosa reduziert. Thoreau ging in seinem Anspruch jedoch viel weiter. Sein Selbstexperiment war seine Reaktion auf den durch die beginnende Industrialisierung einsetzenden Materialismus seiner neuenglischen Landsleute, die ihr vermeintliches Heil in der Wohlstandsmehrung durch technischen Fortschritt sahen. Thoreau verwarf diesen Irrglauben, weil die moderne Technik keinesfalls die innere Natur des Menschen zu bessern vermag. Vielmehr sah er die Gefahr, daß die Menschen zu Sklaven der Technik würden und sich die Menschen durch ihre Habgier von ihren geistigen Bedürfnissen entfremden. Allerdings wich seine kompromißlose Ablehnung der Technik in späteren Jahren der altermilden Einsicht, daß technischer Fortschritt durchaus auch Vorteile bietet, solange er für positive Ziele eingesetzt wird.

In der aufkommenden Industriegesellschaft sah er den einzelnen Menschen als Bestandteil einer anonymen Maschinerie auf einen Marktwert herabgesetzt, dem menschliche Beziehungen fremd sind. Statt dem Menschen zu dienen, nimmt der technische Fortschritt nur wenige mit und überrollt viele. Auch mehr als 150 Jahre später findet seine Zivilisationskritik ihre Entsprechung in der Gegenwart: Die Dynamik und Komplexität moderner Arbeitsprozesse, so der Arbeitspsychologe Michael Kaster, führen zu einer persönlichen Überforderung des Menschen, der in seinem Entwicklungstempo nicht mehr Schritt halten kann und infolgedessen zu dem krankmachenden Schluß gelangt, den Anforderungen modernen Lebens dauerhaft nicht gewachsen zu sein. Am Ende des technischen Fortschritts steht heute nicht das Paradies auf Erden, sondern die Depression als Volkskrankheit Nummer eins.

Thoreaus Gegenentwurf bestand in einer „Ökonomie des Lebens“, in deren Mittelpunkt er die Frage stellte, ob der Mensch nicht auch mit weniger materiellen Besitz glücklich werden könnte. Seine Antwort darauf lautete: „Ein Mensch ist so reich wie die Anzahl der Dinge, auf die er verzichten kann.“ Das Ideal seiner Vorstellungen fand er in der Vollkommenheit der Natur verwirklicht, zu der der Mensch in einem engen Verhältnis steht und auf die er sich zurückbesinnen sollte, anstatt sie gedankenlos auszubeuten. In einer vereinfachten Lebensweise sah er den Schlüssel für die Fähigkeit des Menschen, über sich hinauszuwachsen und glücklich zu werden.

Nicht Weltflucht des Aussteigers, sondern Eigenverantwortung des Menschen; nicht Fremdbestimmung in Unmündigkeit, sondern Selbstbewußtsein – das waren die Prinzipien, die der Nonkonformist Thoreau in seinem Experiment vorleben wollte. Damit griff er, der maßgeblich von Immanuel Kant und vom deutschen Idealismus beeinflußte „Romantiker Amerikas“, die wichtigsten Motive der europäischen Aufklärung auf.

Es besteht kein Zweifel, daß der materielle Lebensstandard unseres Landes durch die Folgen der Globalisierung und der demographischen Entwicklung künftig spürbar schrumpfen wird. Wie man in diesen Zeiten dennoch ein erfülltes Leben führen kann, dazu bietet Thoreaus „Walden“ auch heute noch wertvolle Orientierungshilfe und Inspiration.

Henry David Thoreau: Walden oder Leben in den Wäldern, Diogenes,2004,512 Seiten, gebunden, Leinen, 15,90 Euro

vendredi, 17 octobre 2008

Vision du futur

VISION DU FUTUR

Trouvé sur: http://coterue.over-blog.com

Un passage du grand romancier américain Ray Bradbury (auteur notamment de Fahrenheit 451 sur la criminalisation du livre dans un monde futur) qui imagine pour les environs de 2006, plusieurs décennies avant, certains changements qui pourraient affecter notre société. Il s’agit bien sûr de science-fiction apocalyptique, mais tout n’est pas si faux dans sa vision d’une censure moderne, de l’apparition d’un nouveau politiquement correct et du pouvoir grandissant donné aux communautés aux dépens de l’intérêt général.

 

 

« Ça a commencé en douceur. En 1999, ce n’était qu’un grain de sable. On s’est mis à censurer les dessins humoristiques, puis les romans policiers, et naturellement les films, d’une façon ou d’une autre, sous la pression de tel ou tel groupe, au nom de telle orientation politique, tels préjugés religieux, telles revendications particulières ; il y avait toujours une minorité qui redoutait quelque chose, et une grande majorité ayant peur du noir, peur du futur, peur du passé, peur du présent, peur d’elle-meme et de son ombre. Peur du mot "politique" (qui était, parait-il, redevenu synonyme de communisme dans les milieux les plus réactionnaires, un mot qu’on ne pouvait employer qu’au péril de sa vie). Et avec un tour de vis par-ci, un resserrage de boulon par-là, une pression, une traction, une éradication, l’art et la littérature sont devenus une immense coulée de caramel mou, un méli-mélo de tresses et de noeuds lancés dans toutes les directions, jusqu’à en perdre toute élasticité et toute saveur. Ensuite, les caméras ont cessé de tourner, les salles de spectacle se sont éteintes, et les imprimeries d’où sortait un flot niagaresque de lecture n’ont plus distillé qu’un filet inoffensif de produits "épurés". Oh, le mot "évasion" aussi était extrémiste, faites-moi confiance ! [...]

 

Chacun, disait-on, devait regarder la réalité en face. Se concentrer sur l’Ici et le Maintenant ! Tout ce qui ne s’y conformait pas devait disparaitre. Tous les beaux mensonges littéraires, tous les transports de l’imagination devaient être abattus en plein vol ! Alors on les a alignés contre un mur de bibliothèques un dimanche matin de 2006 ; on les a tous alignés, le Père Noel, le Cavalier sans tête, Blanche-Neige, le Petit Poucet, ma Mère l’Oie – oh, quelle lamentation ! Et on les a abattus. On a brûlé les chateaux en papier, les grenouilles enchantées, les vieux rois, tous ceux qui "vécurent toujours heureux" (car naturellement, il était bien connu que personne ne vivait toujours heureux !) et "il était une fois" est devenu "plus jamais". On a dispersé les cendres de Rickshaw, le fantome ainsi que les décombres du pays d’Oz ; on a désossé Clinda la bonne et Ozma, fait voler la polychromie en éclats dans un spectroscope, et meringué chaque Tête de Citrouille pour les servir au bal des Biologistes ! La tige du haricot magique est morte étouffée sous les ronces de la bureaucratie ! La Belle au Bois-Dormant s’est réveillée au baiser d’un scientifique pour expirer sous la piqure fatale de sa seringue. Ils ont fait boire à Alice une potion qui l’a fait rapetisser au point qu’elle ne pouvait plus s’écrier : "De plus en plus curieux", et d’un coup de marteau, ils ont fracassé le Miroir et chassé tous les Rois rouges et toutes les Huitres. »

 

 

Ray Bradbury, "Usher II" in. "Chroniques Martiennes", Denoel, 1997, p.210-212